Tra i suoi non pochi pregi, tanto cari ai reietti quanto ai buontemponi, il vecchio punk Hc ha una variabile costante nel suo moto perpetuo: martellare su quanto poco giusta e benevola sia la vita di tutti i giorni, con tema libero sui motivi, politici o sociali che siano. Che poi lo sia ancora oggi, a distanza di quarant’anni dalle prime sommosse, è spunto per divagazioni filosofiche e socio-culturali catalogabili sotto un tafazziano “ma che colpa abbiamo noi”. E, quanto sia beffarda e indegnamente schifosa la nostra esistenza, sempre e irrimediabilmente, non perdono occasione di ricordarcelo nemmeno i Dead Tourists, band per tre quarti berlinese, ma che ha la faccia – e i baffi arrotolati all’insù – di Giuseppe Murroni.
Il frontman classe ‘85, villacidrese di nascita, è uno che nella scena underground ha ravanato parecchio, sguazzandoci nella veste di talent-scout e promoter di concerti, muovendo band dal Medio Campidano, su e giù per lo stivale, prima di trovare asilo nella fredda capitale tedesca per decidere di salirci, lui stesso, su un palco e sputare testi intrisi di rabbia e nichilismo: “I Dead Tourists sono una scusa per salire su un palco e urlarvi in faccia il fatto che vi odio tutti, e altre cose che in strada non potrei dire senza essere considerato un pazzo”. Nulla di personale, ovviamente. Solo provocazione e fierezza, pilastri portanti per i figli bastardi della scena old school odierna; una attitude che, chi decide di fondare una band Hc in tempi recenti, come Murroni, non può tralasciare di curare meticolosamente nelle movenze e nelle pose.
Che il progetto Dead Tourists abbia radici solide, seppur recenti – in attivo dal 2015 –, si capisce scivolando nell’ascolto di La Amara Vita, fino alla traccia numero otto, “Tutti pazzi”, attualissimo tributo ai Negazione, assieme omaggio alla scena e sogno nel cassetto coronato dal featuring in studio con Michele “Barox” Barone, storico batterista della band torinese, anch’egli di sede a Berlino. Neanche a dirlo, La Amara Vita, seconda uscita discografica della band, suona squisitamente lercia, spigolosa e vergine come una demo, ma elaborata nel dispiego dei pezzi e non forzatamente nostalgica. Col cantato, poi, si va a nozze, avendo a che fare con un mix minimale ed esasperato di inglese e italiano, dove sembrano essere i pezzi nostrani a risultare più incisivi, con i chorus attaccabrighe di “Guai” e il commiato nichilista di “Un mondo migliore“. I suoni sono artificiosamente scarnificati, manieristici e grezzi come pochi, quasi regrediti rispetto all’album d’esordio, un’involuzione che appare, addirittura, ricercata.
Ci piace pensarli così i Dead Tourists, chiusi in studio, impegnati a smontare e sporcare, come a dire “siamo ancora troppo puliti”. E va più che bene così, in un genere in cui quanto più si toglie tanto più si guadagna. Era questa, ne siamo convinti fino al midollo, la loro intenzione.