Il live report della quattordicesima edizione del festival
Di Claudio Loi, foto di Karel Music Expo
“La visione è l’arte di vedere ciò che è invisibile agli altri”
Jonathan Swift
Da tanti anni, non mi ricordo più quanti, la rassegna organizzata da Vox Day è un imprescindibile appuntamento che ci fa sentire meno soli, meno isolani e isolati, al passo con il mondo che ci circonda, in sintonia con le migliori coscienze alternative sparse per il pianeta. Meno invisibili. Grazie alla voglia di crederci di Davide Catinari e Serenella Massacci, tanti artisti sono passati da queste parti: musicisti solo immaginati, talvolta sconosciuti, qualche volta dimenticati si sono materializzati nei teatri di Cagliari. Apparizioni inaspettate che per qualche giorno illuminano la profonda immensità del vivere quotidiano. Meno invisibili appunto. Il rock, per chi lo vive nelle sue più profonde incarnazioni, è spesso materia oscura, fallimenti, vite ai margini ma anche profonda capacità di comunicare e di viaggiare oltre la coltre dell’ovvio, del mainstream, delle facili manipolazioni. Questo festival viaggia in queste direzioni, si dirige verso un mondo che può essere solo immaginato ma che solo così si manifesta, prende vita e luce. E se quest’anno un nemico invisibile ha opposto qualche resistenza la buona riuscita del festival ci riempie di forze positive e pazienza se abbiamo rinunciato a qualcosa: quello che rimane è materia preziosa da tenersi ben stretta.
Anche quest’anno, oltre alla dimensione sonora, grande spazio è dedicato a eventi collaterali che diventano il collante della manifestazione e riempiono gli spazi con discrezione e qualità: dall’incontro con l’illustratrice Nicoz Balboa alla narrazione della storia del quartiere Sant’Elia, al viaggio su due ruote di Francesco Accardo che ha attraversato la penisola con uno sguardo trasversale, e ancora la performance di Lia Careddu e Ivana Busu e le pietanze preparate con cura dall’Accademia del Buon Gusto.
I primi suoni del festival arrivano dalle sale del T-Hotel di Cagliari che ha ospitato gli eventi in extremis a causa di un imprevisto temporale nella giornata del 10 settembre. Il primo set è lasciato alla voce e alla chitarra di Giulio Frausin ovvero The Sleeping Tree: folk acustico delicato e intimista sospeso tra Nick Drake e tutto quello che è arrivato dopo. Musica essenziale, scarna, perfetta per una serata piovosa di settembre. A seguire The Movie Soundtracks Concert proposto dai Guano Padano un trio stellare composto da Danilo Gallo al basso, dalla batteria di Zeno De Rossi e da Alessandro Asso Stefana alle chitarre: per le referenze chiedete a P J Harvey che li conosce molto bene. Il concerto è la logica conseguenza di Americana, l’ultimo disco pubblicato dal trio qualche anno fa che rappresentava un omaggio alla musica della frontiera con i suoi spazi immensi, sudore, polvere e pochi accessori. Da questa base si innesta un logico aggancio con la musica per film che in modo assoluto ha creato il nostro immaginario e definito una sinergia tra musica e paesaggio. Sono suggestioni che rimandano alle colonne sonore di Morricone, di Trovajoli e Nino Rota e ai nuovi mentori della dust music come Calexico, Bill Frisell, Zorn e Bob Dylan. La serata scorre tra i vibrati della chitarra di Asso Stefana, un’armonica melanconica e il fischio di Zeno De Rossi omaggio al grande Alessandro Alessandroni e alla stagione d’oro degli spaghetti western.
Passata la bufera il festival si sposta al Lazzaretto, uno spazio decisamente più consono all’evento che finalmente riesce a proporre quanto programmato. La serata di venerdì 11 si apre con Arianna Porcelli Safonov che in solitaria propone il suo Riding Tristocomico, un assemblaggio di monologhi tratti dai suoi recenti libri che fanno sorridere ma non troppo. La sua è una narrazione che pesca nella realtà distopica di questi strani tempi, il nostro rincorrere mode e modi, l’illusione di sentirsi alternativi intrappolati da sistemi di pensiero che non lasciano scampo. Ogni sprazzo di sovversione diventa segmento di mercato e persino certe velleità più estreme appaiono ormai vezzi consunti e poco più mentre i social dirigono il traffico e tutto si consuma e si logora con rassegnazione e ipocrisia. La Safonov pascola in questi territori al limite della nevrosi, ci fa sorridere, ci fa sentire altro ma allo stesso tempo ci fa capire che la merce siamo noi e le nostre misere automanipolazioni. Triste, solitario y final.
Giusto il tempo di ascoltare le cicliche visioni di Accardo e si passa allo show di Davide Toffolo che, come al solito, richiama all’ordine i tanti fan presenti nell’isola. È un Toffolo diverso dal solito, più umano, più vero. Una mise da slacker anni Novanta, una chitarra acustica e i suoi disegni che scorrono sullo sfondo. Tra una canzone e l’altra pescata dal suo copioso songbook Toffolo ci racconta i giorni dell’esilio, le sue paure e le sue manie. Ci parla di uccelli, di natura affranta, di uomini che ancora riescono a sorridere. Andrà tutto benino? Forse sì, forse no. Ma l’importante è riprendere a vivere e a stare con le persone giuste. Poi si vedrà…
Chiude la serata Convergenze Ritmiche in Dattilotessitura, un inaspettato set composto dalle percussioni di Giacomo Salis, dalla chitarra disturbata e dislessica di Menion e dalle macchine da scrivere suonate da Davide Tocco. Che dire? Qualcosa che colpisce nel profondo. Elettronica e mondo reale convivono con naturale disinvoltura e il ticchettio delle macchine da scrivere è tanto coerente quanto straniante. Musica totale, intensa, genuina per un finale che per me rimane uno dei momenti più emozionanti della rassegna.
La serata di sabato, sempre al Lazzaretto, si apre con la performance di Francesco Piu e il suo blues modificato e corretto. Il musicista di Osilo offre un saggio della sua capacità di riuscire a riscrivere un genere così inflazionato e abusato e lo fa con grande perizia tecnica e con buona prestanza scenica. Le sue chitarre fendono la notte richiamando scenari lontani, mitici ma mai scontati. Abbiamo tutti un blues da piangere ed è giusto ricordarci che l’evoluzione della specie passa anche da lì e lì torna.
Lo sguardo viene poi richiamato dalla performance sonoro/visiva di Paola Corrias e Stefano Marcia per poi tornare al main stage con la performance All Good Children Go To Heaven proposta dall’estemporaneo progetto London 69 messo in cantiere da alcuni mostri sacri del rock italico: Roberto Dellera, Sebastiano Forte, Lino Gitto, Andrea Pesce e due ospiti speciali come Rachele Bastreghi e Federico Poggipollini. L’idea folle, disse Dellera, è quella di rendere omaggio alla musica dei Beatles con la massima attenzione possibile evitando fughe laterali che spesso diventano parodie senza senso. Che – se ci pensiamo – è quello che si fa con Bach, Mozart e simili e quindi non deve stupire l’approccio filologico alla materia, al rispetto delle fonti e delle trame originali. All’inizio questo spiazza ma lentamente si inizia a prendere coscienza della qualità del suono, della raffinata scrittura, della bellezza di queste composizioni. Lo spettacolo è impostato sulla riproposizione integrale di Abbey Road, album del 1969, una pietra miliare della storia della musica del Novecento e 45 minuti di canzoni che tutti abbiamo impresse nella memoria. Lo spettacolo funziona, i musicisti si divertono e fanno divertire e c’è spazio anche per un corposo extra con altri brani pescati nell’immensità del patrimonio beatlesiano con la solenne Get Back che chiude il cerchio.
Il festival finisce così. Un anno transitorio, sofferto ma non per questo di minore valore emotivo: Davide Catinari appare visibilmente soddisfatto perché capisce quanto sia importante continuare a insistere, affrontare un nemico invisibile e le solite menate di chi vive di rock e nel rock. Come Together!