Il live report della terza serata del Festival sulle Culture Resistenti
Di Anita Ferro, foto di Daniele Fadda
Ad aprire l’ultima giornata del festival è il Luigi Frassetto Quartet. Il basso roboante, il theremin a fare interferenze e le sue chitarre, sempre suggestive, portano in scena una divagazione cinematografica che passa dalle pellicole anni ‘30, al Conte Dracula fino a Clint Eastwood. L’attitudine da colonna sonora, tuttavia, sembra risentire della forma live: avulsi da immagini che li accompagnino, i brani dissipano un po’ la loro capacità di emozionare e la bravura dei musicisti sembra, in qualche modo, non riuscire a sopperire a questa mancanza.
Emme Woods, dalla Scozia, si presenta con Jaguar arancione e tuta da meccanico dello stesso colore. I brani ricordano lo stile di Thony e Maria Antonietta; Emme danza sbattendo i talloni, una Dorothy che ci porta in una Oz che rimane soporosa finché i suoi graffiati, accennati in una dedica a casa e alla band lì rimasta, scuotono dalla monotonia. Saluta con l’intramontabile “Where did you sleep last night” e con un cheers!
Al rientro nella sala live troviamo i The Ranch, formazione maltese che dichiara subito il suo scopo: divertirsi e di far divertire. Il canto, cristallino, viene intonato su suoni ruvidi e sgangherati e sembra di assistere a una lezione di solfeggio di Mina rintanati in uno scantinato americano rimasto fermo alla fine degli anni ‘90. I testi altro non sono che dei vocalizzi; gli artisti provano a coinvolgere il pubblico che si rivela però poco incline al gioco. In qualche istante rimandano ai Guano Apes di Big in Japan, ma nella summa il set appare come un esercizio di stile un po’ troppo noise che non cattura del tutto.
È il momento di Luna, cantautrice toscana che si esibisce insieme a Filippo Scandroglio. La formazione a due chitarre non è quella abituale, il live è frammentato da lunghe digressioni esplicative dei testi e il tutto penalizza e condiziona l’andamento del set che, seppur gradevole nella sua totalità, non entusiasma gli spettatori.
Chiudono la manifestazione i The Winstons. Linnon, Rob ed Enro, scaraventati sul palco da una time machine che arriva dritta dalla fine degli anni sessanta, suonano quel rock che odora di Woodstock, Harley Davidson, Fonzie e Austin Powers. La performance si avvale di visual che evocano la guerra fredda, il grande sogno americano, la conquista dello spazio, i soviet, la microbiologia e le dimensioni infinitesimali. Cose enormi e cose minuscole, le stesse che si ripropongono in tutto il susseguirsi del concerto. I tre sono affiatati, si scambiano le postazioni, si divertono come fossero stravaccati nei loro divani e non sul palcoscenico. I pezzi sono tutti molto lunghi, con cenni prog e psych, senza essere – in fondo – né una né l’altra cosa. Una riproposizione di Carpet Crawler abbassa il sipario sul Karel. Il pubblico, più nutrito rispetto all’inizio della serata, accoglie soddisfatto e canta in coro con la band in quello che è, emotivamente e di fatto, il culmine del concerto.
Non è tuttavia l’azimut della kermesse, che quest’anno ha dato del suo meglio nelle giornate iniziali mentre, sul finire, ha interrotto un climax che – dopo le esibizioni dei Julie’s Haircut e dei C’mon Tigre – si credeva fosse una funzione esponenziale. Questo non inficia, però, tutto il lavoro fatto dall’organizzazione, che da anni continua a frugare tra i generi e tra le avanguardie e a proporre delle scelte nuove, alternative e mai scontate che, pur non incontrando il gusto di tutti, meritano almeno un ascolto e, di certo, una possibilità.
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