Il live report della seconda serata del Festival delle Culture Resistenti
Di Anita Ferro, foto di Stefania Desotgiu
Il preludio della seconda serata è affidato ai Nunc, duo isolano composto da Peppino Anfossi e Manuel Attanasio. Il live va più o meno così: immaginate la colonna sonora di Eyes Wide Shut sul set di Ballo a tre passi, condite con richiami di Iosonouncane e Ovunque Proteggi, trasmissioni aerospaziali, un pizzico dell’ultimo Bosè di MTV q.b. e shakerate bene. Un compendio di contraddizioni, un accostamento che forse è un azzardo e che, come acqua e olio, può mescolarsi solo con la forza.
Matthew Frederick, hipster gallese giovane e poco smaliziato, barba e cuffia colorata sulla testa, offre una performance spoglia tutta concentrata su voce e piano. I testi sono semplici e raccontano di quella fase della vita tra l’adolescenza e l’età adulta che, per molti degli astanti, è solo una polaroid vecchia di vent’anni. Un blues finale fa apprezzare le doti vocali dell’artista, che si esprimono al meglio nella magnitudine, e per cui ci sono a disposizione tutti i domani che servono.
La palla passa agli Alpine Dweller. Il trio austriaco tra falsetti, canti a canoni e giochi di corde – violoncello, violino, ukulele e chitarra – trascina tutti in un corto di Asterix e Obelix: potrebbe spuntare un fauno dal retro dello stage e nessuno si stupirebbe. Il clima scanzonato vira, sul terzo brano, in un momento di intimismo: il canto cupo di Matthias recita un ultimo, insistente ritornello “This is the answer”, eppure gli spettatori sembrano chiedersi quale sia la domanda. Ci accomiatiamo distesi su alpeggi di quota, a mangiare margherite e vento.
Quando le luci si abbassano e il vociare cessa, il palco è vuoto. Non ci sono musicisti a popolarlo, ma in compenso trabocca di strumenti – una cartina geografica del Mediterraneo, dichiarazione di intenti e sintesi del progetto artistico e poliedrico che i C’mon Tigre sono. L’enigmatico duo e i quattro musici che lo accompagnano scorrono tra il pubblico e vanno a riempire le isole sgombre accanto ai loro arsenali. Si parte con un’autoproclamazione: “C’mon Tigre”, titolo e testo del pezzo che si ripete come un mantra, fa precipitare tutti in uno stato ipnotico dal quale sarà complicato riaversi, anche dopo la fine del concerto.
A guardarli, tutti diversi tra loro, sembrano una strana accozzaglia di personalità, ma quando iniziano a suonare si fanno siamesi: un corpo solo, che si muove sinuoso, dove i confini di ciascuno non sono più distinguibili.
Il suono è compatto, corposo, un organismo complesso: si concede ammiccante a uditi e sensibilità raffinate che di certo non si faranno bastare il compitino da portare a casa, la sufficienza democratica. Smania, quella degli ascoltatori, che non resterà inappagata. Le canzoni si affastellano balzando repentinamente da una latitudine all’altra e, se si chiudono gli occhi, si passa da una Parigi sporca e illuminata di rosso a una New York opalescente satura di contaminazioni di ogni tipo – profumi, cibi, volti, culture, tradizioni – emblema del cosmopolitismo. Poi Nuova Delhi, o Marrakech, l’Holi Colors, i mercati delle spezie, i turisti occidentali pallidi e storditi come falene in preda al richiamo della luce. È questa la sensazione che pervade: un’attrazione che parte dalle caviglie e che, vibrando, raggiunge la gola e la agguanta facendo scordare che è necessario anche espirare.
Trattenere, conservare tutto, stipare le emozioni – un’acrobazia sul plateau del piacere. Tutti sul palco, a turno, si ritagliano spazi di aggressione senza mai eccedere nella prevaricazione, l’esibizione si mantiene coesa e consente di apprezzare anche la sintonia immediata che si è venuta a creare tra arte e fruitore. Eccitato, il pubblico batte le mani a tempo e innalza la carica emotiva con sguardi persi, sorrisi estatici, movimenti lenti e accordati: un’onda che avanza e si ritrae in una risacca dove funk, hip hop e afrobeat rotolano come frammenti di vetro levigati, tesori da raccogliere nelle tasche e portare via, a casa.
La prima dose di acclamazione precede l’encore, che arriva dopo tre inchini e un bagno di ovazioni. “Federation Tunisienne De Football”, riconosciuta sin dalle prime note, chiude il concerto. La platea, grata e gaudente, la più numerosa che registrerà il festival, regala agli artisti un lunghissimo abbraccio di grida e applausi. Tutto decisamente proporzionato allo spettacolo: ricercato, inimitabile nella sua assurda capacità di sfuggire a qualsiasi definizione e travalicare ogni confine, erotico e ammaliante – forse, col senno del poi, il migliore di tutto il cartellone. Chiudiamo così la seconda giornata del Karel Music Expò: fermi sul ciglio di un orgasmo, tremanti come un vulcano che sta per eruttare e si trattiene, col desiderio folle di tenere intatta quell’energia, di non lasciarla esplodere mai.