I Sabbia non sono un gruppo prettamente sardo. Cogliamo comunque l’occasione di scriverne per il suo stretto legame con l’isola. Uno dei membri, il chitarrista Gabriele Serafini, proviene dal Sulcis, come la produzione, che vede Kono Dischi insieme alla, anch’essa sulcitana, La Mansarda.
Oltre a Serafini, tra le file dei Sabbia militano, attualmente stanziali, Alessandro Finotello al basso, Giacomo Petrocci al sassofono, Andrea Bertoli alle tastiere e Marco De Grandi alla batteria.
Anche se la band ama definirsi psycho stoner strumentale, il sassofono di Giacomo Petrocchi, li rende, in questo lavoro, irrimediabilmente appetibili per un pubblico jazz.
Ne Il barone Von Daza, ad esempio, si gode di un viaggio dolcissimo, sinuoso, che sa però comunicare con urgenza drammatica. Un bellissimo incastro di pianoforte e sassofono che, anche se nasce funereo, grave, riesce ad aprirsi e librarsi. Brano notevole.
Più pshyco che stoner
Tutta la scaletta comunque è incisiva. Un rock psichedelico e cinematografico fa da tappeto al sassofeggiare di Petrocchi. Si passa su territori a volte orientaleggianti, a volte quasi bandistici. Si respirano malinconia, straniamento.
Kalijombre, il disco, è più pshyco che stoner, decisamente. Le distorsioni sono meno presenti, e la luce, come racconta bene la copertina, rispetto all’oscurità del precedente omonimo lavoro è predominante.
Non manca certo la tensione. Ora è più spaziale, meno definita, meno visibile ma più presente, arriva da lontano e ti travolge. La tessitura ritmica è precisa e la trama creata dalle tastiere di Bertoli è spessa, com’è decisamente lisergico il suono della chitarra di Serafini nell’incipit della finale A Spada Tratta che deve a Sonic Youth quanto a Neurosis.
L’artwork rende merito alle composizioni dei Sabbia e si colloca esattamente dove sta la musica. Gioele Bertin coglie in modo pregevole il concetto di un nervosismo alla luce del sole, quasi solare, seguendo anche il filo logico con il precedente album.