Here I Stay - June of 44 - Emiliano Cocco - Luca Garau - Marco Cherchi - Jasmine Pilloni - intervista - Museo Nivola - Orani - 2022- Sa Scena - 7 giugno 2022

Intervista ai June of 44

RedazioneInterviste

Dopo i due anni di stop, torna l’ Festival e lo fa nell’affascinante e sempre più appropriata cornice del Museo Nivola di Orani. La formula è la stessa: musica, banchetti del merch, cibo, bicchieri riutilizzabili – già da prima che fosse mainstream – e un collettivo di volti, sorrisi, amicizie e bimbi coi cuffioni che, dai tempi dello Sleepwalkers a oggi, segue l’evento con costanza e dedizione.
Nemmeno l’acquazzone pomeridiano ha smorzato gli animi e il sole di maggio, riappropriatosi della scena, ha fatto da perfetto contorno per un altro riuscito caso di ritorno alla normalità.
Nel cartellone Rizoma, Stziopa (rimandato a brevissimo), i sardo-veneti Nairobi e gli statunitensi , per la prima volta in Sardegna.

Questi ultimi per tanti hanno rappresentato un punto fermo, didascalico come il nome che portano, una parentesi lungo quel tratto di linea del tempo che traghettava oltre i ’90 le generazioni underground cresciute con il mito di Louisville e del suo inconfondibile sound. 

Con Jeff Mueller (chitarra e voce) e Doug Scharin (batteria) parliamo dei significati che può avere un ritorno di peso come quello dei June of 44, di quanto sia ancora piacevolmente difficile inquadrare la loro musica in un genere e di tutto ciò che di più lontano dal music business può spingere una band storica a riunirsi dopo quasi vent’anni di assenza dalle scene. 

Intervista di Marco Cherchi e Luca Garau con la collaborazione di Jasmine Pilloni – Fotografie di Emiliano Cocco e Marta Muscas

June of 44 @ Here I Stay Fest, Orani, Museo Nivola – Foto di Emiliano Cocco

Grazie per averci dedicato il vostro tempo, partiamo quindi dal dirvi che per noi è un onore intervistare, per la prima volta tra le pagine di Sa Scena, una band internazionale del vostro livello.

Doug: Noi? Internazionali? Wow…

Jeff: Allora proveremo a essere educati, civili e a dare le risposte giuste. Scherzi a parte, congratulazioni per la vostra iniziativa, spero possa crescere nel tempo.

Negli anni siete stati accostati talvolta allo slowcore o emocore, poi al post rock o math-rock, senza tralasciare le influenze noise, progressive, jazz e addirittura pop. Dall’uscita di Anahata è diventato sempre più complicato definirvi. Per i pochi che non vi conoscono, come definireste la vostra musica e in quale genere oggi vi collochereste?

Jeff: É difficile trovare un termine univoco, quello che cerchiamo di fare come band è di infondere le nostre identità nella musica che componiamo ed è una cosa difficile perchè siamo persone testarde con idee molto specifiche a riguardo. Ma la cosa che penso funzioni meglio tra noi è che siamo persone molto collaborative, spendiamo molte energie in tutto ciò che è “preparatorio” ai pezzi e questo rende possibile che ognuno di noi porti il suo contributo. Per questi motivi è riduttivo riferirsi a un solo termine per definire la musica che facciamo, ognuno di noi può portare tanti generi diversi. O forse è semplicemente “rock”?

Doug: Tornando indietro, negli anni ‘90 venivamo definiti math-rock. Ma cosa significa? Solo perché suoni delle canzoni con ritmiche complesse e lo fai in 5/4, allora è math rock? É un concetto che riguarda il modo in cui si suonano e registrano i pezzi. Anni fa potevamo suonare sessioni intere e avere un’idea molto precisa di chi fossimo, ma ora non saprei se è la migliore definizione per noi.

Jeff: Ad ogni modo credo che i June of 44 siano più un veicolo per esercitare la nostra vena creativa, tirare fuori tante cose diverse senza focalizzarsi troppo sul tipo di musica che si fa, purché sia un luogo in cui liberare tutte le nostre idee. Potremmo suonare elettronica, rock tradizionale o perfino jazz, alla fine la musica è anche un tramite per incontrare persone, viaggiare, anche essere qua, in Sardegna.

Doug: Penso che la nostra musica sia più profonda ora che mai. Anche se le canzoni sono di diversi anni fa, il modo in cui ci approcciamo a esse è più profondo, molto diverso da quanto accadeva vent’anni fa, cresce ancora e si muove. Può essere rock, o più semplicemente un’espressione di noi stessi.

Jeff: In realtà io credo di essere peggiorato molto tecnicamente, ce la metto tutta ma Doug è difficile da soddisfare.

June of 44 @ Here I Stay Fest, Orani, Museo Nivola – Foto di Emiliano Cocco

Siete stati già altre volte in Italia e sappiamo anche che avete ottimi contatti con band italiane come Uzeda, Bellini, Three Second Kiss. É invece la prima volta che suonate in Sardegna. Che aspettative avete? 

Jeff: Siamo arrivati in Italia passando per Catania, guidati dal nostro amico Agostino (Tilotta, degli Uzeda, ndr). Siamo arrivati da pochissimo in Sardegna, accolti dallo staff dell’Here I Stay che sta lavorando per fare in modo che sia tutto ben organizzato: la mia percezione, anche se arrivati qui da appena tre ore, è che siamo tra persone genuine e ospitali.

Doug: So che le persone di questa terra vivono a lungo, sono qui per scoprirne il segreto! Siamo stati invitati anche tre anni fa, nel gennaio 2019 eravamo a Chicago e Agostino ci disse di raggiungerlo in estate, fummo molto contenti di ricevere l’invito. Mancavano ancora sei mesi ma eravamo esaltati all’idea di venire, e finalmente dopo tre anni siamo qua. Abbiamo tante aspettative, abbiamo avuto un sacco di tempo per pensarci e volevamo davvero venirci da tanto. 

Sempre parlando di band, voi, la scena di Louisville, della Touch and Go / Quarterstick Records, potete a pieno titolo definirvi seminali. Ma invece quali sono gli ascolti di una band seminale nel 2022?

Doug: Non ascolto molta musica, ne ho ascoltato per tanto tempo di qualsiasi tipo, negli ultimi tempi se ascolto qualcosa è probabilmente hip hop. Oggi l’ascolto a cui siamo sottoposti è quasi “forzato”: suoniamo quasi ogni notte, ascoltiamo musica nel van durante gli spostamenti. Sono più interessato a suonare musica che non ad ascoltarla. Ma questo sono io, ad esempio Fred (Erskine, bassista – ndr) ascolta musica tutto il tempo e compra album di continuo. In altri momenti preferisco ascoltare podcast o interviste ai musicisti che amo e rispetto, che parlano delle loro vite. Sono sicuro che tra qualche anno ascolterò di nuovo musica tutto il tempo!

Jeff: Io vengo da New Haven (Connecticut) e nell’ultimo mese ho ascoltato diversi artisti provenienti da quella scena. 

Sto ascoltando anche una band di Baltimora, i Wye Oak, sul genere pop con i synth, e i My Brightest Diamond, un progetto elettronico con una voce pop lirica molto bella. Ascolto anche country, o metal, ad esempio i Meshuggah e gli Opeth, anche se è un genere più ostico per le mie orecchie a causa di un problema congenito all’udito che ho ereditato da mio padre.

C’è poi un album scoperto nell’ultimo anno, composto da un’amica di Louisville, Tara Jane O’Neil, con cui ho suonato nei Rodan, il disco si chiama Songs for Peacock e ha delle atmosfere ambient molto belle e rilassanti.

June of 44 @ Here I Stay Fest, Orani, Museo Nivola – Foto di Emiliano Cocco

In questo periodo ci sono i Karate in tour, che toccheranno l’Italia a breve. Qualche anno fa gli Slint, dal 2018 voi. Qual è la spinta che porta a riprendere a suonare e fare tour insieme?

Jeff: Per questa occasione in particolare il merito è di Agostino. É stato lui che ci ha scritto nel Marzo del 2018, dopo diciotto anni che non suonavamo (a parte pochi festival), per dirci «Ragazzi, dovete tornare insieme per suonare al 30° anniversario degli Uzeda a Catania». Quando una persona che per te è come se facesse parte della tua famiglia ti chiede una cosa del genere, non hai nessun motivo reale per dire no. Dopo aver dato conferma eravamo terrorizzati: davvero dobbiamo tornare a fare musica insieme?Come faremo? 

Doug: Inoltre eravamo informati del fatto che è una cattiva idea dire “no” a un siciliano…

Jeff: Siamo stati molto contenti di farlo, la scena musicale del 2018/2022 presenta una serie di nuove e profonde variabili che non esistevano quando avevamo iniziato a fare musica negli anni ‘90. L’industria musicale si è allargata notevolmente ed è cambiata profondamente rispetto a vent’anni fa. Potrei dire che la vendita degli album e dei cd, ma anche l’intera industria musicale, sia andata incontro ad almeno una decina di complete transizioni nell’arco di questi vent’anni in cui non abbiamo suonato insieme. Per me si è aperto un nuovo percorso di apprendimento: ogni momento in cui siamo sul palco a suonare può essere facilmente ripreso e trasmesso in ogni parte del mondo. Noi siamo arrivati prima di YouTube, tutti i video che si trovano online su di noi prima di questa reunion arrivano da dei VHS di qualità terribile. Ci sono tante cose con cui ri-familiarizzare. 

Doug: Avete citato i Karate, le reunion, e mi chiedo se scelte di questo tipo (per noi arrivata dopo vent’anni) siano mosse semplicemente dall’interesse per la musica in senso lato. Penso ci sia qualcosa di più profondo. Siamo stati in concerto a Los Angeles di recente, uno show all-ages, e c’erano alcuni ragazzini molto partecipi, uno di questi ci ha confidato che era venuto a conoscenza della nostra band grazie al padre. Anche l’altra sera a Genova c’erano dei ragazzi.

Jeff: Ci pensi a come un ragazzo di vent’anni possa assimilare la nostra musica così come avviene per i Led Zeppelin o Hendrix o i R.E.M.? Tutto questo per un ragazzo che sta appena iniziando a scoprire musica creata, magari, quindici anni fa. Tutta questa musica di quindici, o anche trent’anni fa, che si fonde in un unico insieme. Non mi paragonerei mai a questi musicisti in termini artistici o di successo o altro, ma è interessante come ci sia tutta una nuova generazione di giovani ragazzi che ci stanno riscoprendo allo stesso modo.

Doug: I nostri stessi figli! Mia figlia ha vent’anni, va al college, quando parla di musica con gli amici racconta che il papà è in tour. Più in generale è interessante questo aspetto che unisce il pubblico più adulto a quello più giovane nella riscoperta di band importanti di scene pregresse. Le stesse label discografiche oggi, attraverso le riedizioni, cercano di raggiungere nuovi target di ascoltatori mai considerati prima; e questa, assieme al pensiero che ci possono essere davvero persone a cui la nostra musica arriva ancora oggi, è una cosa che mi fa sentire ancora “giovane”. 

In definitiva senza musica non sarei la stessa persona e questo penso abbia contribuito in modo determinante a farci tornare assieme. 

C’è stato anche un lungo periodo in cui ho smesso di suonare. Finché non abbiamo ripreso a suonare insieme nel 2018 non avevo toccato la mia batteria per due anni. Non è una cosa cattiva allontanarsi dalla musica ogni tanto…

Jeff: Penso che a volte capiti, che tu sia un musicista, un artista, uno scrittore o un cuoco, di entrare nel proprio studio, cucina, o laboratorio, sederti lì e scoprire che la tua musa ispiratrice non si fa vedere. Come musicista può essere qualcosa di profondamente frustrante ma non è obbligatoriamente qualcosa di negativo fare un passo indietro e rimanere invisibili per un pò di tempo. É una fase di crescita, dove hai la possibilità di ridefinire il processo creativo e renderlo più genuino e sincero.

Doug: Per me è stata la stessa cosa, continuare a fare le cose allo stesso modo e non sentire più la stessa “freschezza” in ciò che facevo e nell’approccio alla musica era frustrante, non ricevere gli stessi stimoli dall’ascolto attivo. Ho sentito il bisogno di buttar fuori tutto e di spingere la mia mente in una dimensione diversa. 

Ora che siamo tornati a fare musica e abbiamo nuove idee, sento che lo facciamo nel modo più espressivo possibile, sia individualmente che come gruppo, e penso che stiamo iniziando a realizzarlo solo ora.

Jeff: Abbiamo 51 e 57 (Doug) anni, ce li siamo sentiti quando siamo atterrati a Helsinki o a Zagabria: ma quando sono salito sul palco per il primo show a Zagabria, la scorsa settimana, ne sentivo trenta. L’energia che ti danno il palco e il pubblico è pazzesca. É un fenomeno particolare, l’interazione che si crea con gli altri musicisti e con il pubblico.

 Doug Scharin e Jeff Mueller – Foto di Marta Muscas

Oltre i tour voi avete anche pubblicato Revisionist (Adaptations and Future Histories in the Time of Love and Survival). Un disco di remix e rivisitazioni di vostri pezzi, quasi a voler evitare di essere la cover band di se stessi. Che rapporto avete coi vostri brani?

Jeff: É una buona domanda. Quando Agostino ci chiamò per il famoso festival a Catania, è stato complicato “ristudiare” i nostri pezzi da un punto di vista pratico, perché non suono più la chitarra allo stesso modo, suono altri generi ora. Quando abbiamo iniziato a ripassare i pezzi, ho re-imparato in modo molto veloce, ma si sono aperte diverse sensazioni nella mia mente. Ho rivissuto alcuni momenti e luoghi di quando mi trovavo a scrivere i brani: come la cucina della casa in Kentucky nel 1997 o i pezzi che parlavano di amici che non ci sono più. Quando oggi suoniamo queste canzoni davanti a un pubblico, riemergono tutte queste sensazioni e immagini. Sono più interessato a cercare questa esperienza interiore nella performance, a ricordarmi di cosa parlavano realmente quelle canzoni, che non a ridurre il tutto a un esercizio fisico e accademico.

Avete contribuito in modo sostanziale a creare la scena post-rock di Louisville, città a cui un certo tipo di sound è strettamente legato, e dopo vent’anni siete ancora in tour. Nella nostra scena, invece, non sono pochi i casi di neoband nate “in casa” e che a distanza di pochi anni scompaiono, limitando il processo di sviluppo di nuove scene urbane: secondo voi è la scena a formare le band o viceversa? Che band sarebbe stata June of 44 senza Louisville?

Doug: In realtà non ci sentiamo parte di una scena locale, non ne siamo mai stati parte, ognuno di noi arriva da scene diverse e abbiamo sempre vissuto in quattro città diverse. Penso che sia questa la caratteristica che ha contribuito a rendere la musica dei June of 44 così unica. È ovvio che la musica dei June of 44 ha radici profonde a Louisville, in particolare per le forti connessioni di Jeff con questo territorio, poi portate all’interno del nostro progetto, ma non ci siamo originati da lì in maniera naturale.

Jeff: Così come dicevamo per il genere in cui inquadrare i June of 44, a inizio intervista, allo stesso modo non c’è una sola città che possa essere eletta come unicamente rappresentativa della nostra formazione. Personalmente, in base alla mia esperienza al di fuori dei June of 44, credo che le band e la comunità si formino insieme, non c’è una cosa che arriva prima. La mia band precedente era interamente di Louisville, facevamo di tutto per supportarci a vicenda e questo è stato di grande ispirazione, volevamo fare qualcosa che fosse altrettanto buono e stimolante. Penso che questo istinto naturale alla collaborazione maturato nell’esperienza di Louisville abbia influenzato anche ciò che facevamo con i June of 44 e come lo facevamo: un processo creativo molto articolato e impegnativo da parte di tutti, ma concentrato in un ristretto lasso di tempo, dove la collaborazione e l’apporto di ciascuno è fondamentale per far funzionare l’insieme. Il nostro primo disco è stato scritto e registrato in sole due settimane e mezzo e non ci eravamo ancora mai incontrati né avevamo suonato assieme prima di quel momento. 

Doug: Conoscevo solo Jeff, ma nessuno degli altri finché non sono entrati nel mio loft di Brooklyn, abbiamo provato per una settimana e registrato. Penso che stiamo realizzando solo ora da dove provenga la nostra musica: una parte del viaggio con i June of 44 è stata proprio questa, fare tutto velocemente senza sapere se ci sarebbe stato dell’altro. Da lì in avanti si è trattato di esplorare che cosa sia davvero la musica. Abbiamo fatto una pausa di vent’anni e lo stiamo ancora scoprendo, nel modo più bello possibile.

Jeff: Incontrarci a New York alla fine del 1994 è l’unica ragione dietro la genesi della nostra musica. Li avevo già sentiti suonare, volevo presentarmi con delle buone idee, altrimenti il progetto non sarebbe venuto fuori in questo modo. Uno di noi tirava fuori un’idea e ognuno aggiungeva un pezzo, da lì in poi è diventato un processo sempre più collaborativo.

June of 44 @ Here I Stay Fest, Orani, Museo Nivola – Foto di Emiliano Cocco

In un’intervista seguita all’uscita di Revisionist (Adaptations and Future Histories in the Time of Love and Survival) avete detto che volevate registrare le canzoni nel modo in cui le suonavate dal vivo. Nelle pagine della nostra rivista abbiamo trattato, all’opposto, casi di band che hanno registrato in studio senza mai esser saliti su un palco. Cosa pensate di questa nuova tendenza che punta più all’uscita sulle piattaforme digitali e che sembra dare meno peso (rispetto al passato) all’esperienza live?

Doug: Trovo che sia una cosa molto noiosa, nonostante anch’io abbia un home studio dove autoproduco diverse cose, ma è qualcosa di completamente diverso dal suonare uno strumento, suonare la batteria e farlo in presenza di altri musicisti. Penso che oggi e negli ultimi vent’anni, si sia sdoganata nell’industria musicale questa idea di musica fatta da chi non necessariamente ha imparato a suonare uno strumento. C’è chi sicuramente argomenterebbe che consoles e programmi vari possano essere considerati strumenti, e che ciò che ne deriva possa essere qualcosa di creativo nella stessa misura, ma premere bottoni non è tangibile come suonare una chitarra e imparare degli accordi. Per me è davvero difficile sentirmi connesso con questa forma di musica. Non dico che ci debba essere qualcosa di giusto o sbagliato in questo, forse potrei semplicemente dire che non è giusto (ride, ndr): chiunque può sedersi nella sua stanza, davanti a dei comandi, senza dover uscire e suonare davanti a tutti. Penso sia questa l’essenza del fare musica e ciò che ogni giovane musicista dovrebbe fare. Sono un po’ “old school”, mi rendo conto, sai i miei 57 anni…

Jeff: Non sono il genere di persona che pensa che dovremmo tutti tornare ai vecchi tempi d’oro. Ci sono cose che probabilmente non comprendiamo o che non ci interessano, ma dietro di esse ci sono persone e sentimenti altrettanto sinceri e genuini, a prescindere dalle capacità. Allo stesso modo questo avviene in campo musicale. Ci sono persone che probabilmente assimilano la musica allo stesso modo in cui approcciano ai videogame; penso ad esempio a Minecraft, dove si creano dei mondi e l’intento è quello di mostrare agli altri cosa si è realizzato. La stessa cosa si potrebbe dire per chi compone musica esclusivamente in forma digitale, con l’intento di farla ascoltare agli altri. Finchè si tratta di un processo da cui scaturisce senso di soddisfazione e di libertà va bene anche se, come ha detto Doug, per noi è qualcosa di inusuale, un’esperienza lontana da noi, che non ci appartiene.

Doug: Non è qualcosa da demonizzare, credo sia principalmente un decorso generazionale, perché noi siamo cresciuti e abbiamo iniziato a suonare e andare in tour prima ancora dei cd.

Jeff: Ti riferisci, forse, a quando i Codeine facevano le prove nel mio seminterrato. Avevo una casa a Louisville in quel periodo e la cucina era esattamente sopra la sala utilizzata per le prove: ricordo distintamente che stavo disteso sul pavimento della cucina mentre loro suonavano qualche centimetro sotto di me, il pavimento della cucina si muoveva ed è stata l’esperienza più bella e catartica fino a quel punto della mia vita, proveniente semplicemente dal sentire tre persone suonare dei pezzi in una stanza. Da allora capii che volevo fare musica con altre persone e per le persone.

Doug: La differenza sono gli esseri umani. Puoi interagire con una macchina e crearci della musica bellissima, ma farlo con altri essere umani è un’altra cosa. É una connessione, è una vibrazione che si condivide l’un l’altro. Non c’è una cosa giusta o sbagliata, sono solo cose diverse.