Dopo quindici anni trascorsi nella capitale catalana, lo scorso anno Paolo Angeli ha deciso di prendersi una pausa per fare ritorno a casa. Prima di partire ha composto e registrato oltre 4 ore di musica. Nella sua casa di Barcellona, ma con la testa alla sua terra: non solo al luogo fisico – l’Isola – ma anche alla distanza che lo separa da essa, ai suoi spazi e i suoi tempi, ai suoni e ai silenzi. Una volta in Sardegna, tra le isole dell’arcipelago di La Maddalena e le Giare di Serri e Gesturi, ha rielaborato il tutto e scelto, da quelle session, i sei estratti che sono andati poi a comporre Jar’a.
Questo percorso è vissuto da Paolo come un “ritorno in superficie” dalle profondità di quel mare che è il suo elemento naturale: un mare che è insieme culla e veicolo, un unicum senza soluzioni di continuità che, con coerenza e senza distinzioni, tocca sponde diversissime tra loro. Questa fluidità, da sempre una costante nell’approccio alla musica del chitarrista gallurese, in Jar’a assume però una dimensione e un’importanza forse inedite nella sua discografia. Gli spazi rappresentati e coperti dalle sue soluzioni sonore si ampliano a dismisura, riuscendo a far convivere all’interno dei propri non-confini, l’immancabile canto gallurese, il post-rock, la composizione orchestrale, il minimalismo e le voci del tenore barbaricino, travalicando i suoi stessi riferimenti storici, ben oltre Canterbury, le avanguardie o il flamenco.
Certo, giocano un ruolo determinante la sua tecnica esecutiva, unica nel suo genere e in continua evoluzione, e la sua esperienza nel controllo dei suoni e dei loro colori: per quanto le stratificazioni presenti portino a pensare il contrario, Jar’a è stato inciso interamente in presa diretta, con diverse parti improvvisate e senza alcuna sovraincisione. Scelti gli estratti, la post-produzione si è limitata al posizionamento stereofonico delle tracce, conferendo tridimensionalità alla registrazione, per meglio rappresentare il concetto di spazio a cui ambiva.
Ma la differenza la fa, ancora una volta, la sua curiosità fanciullesca, quella di chi ancora si innamora di tutto, che lo porta a vedere la sua chitarra come un giocattolo ogni volta diverso, con il quale scoprire nuovi suoni e nuovi modi di armonizzare le proprie emozioni, con il quale esperire ancora prima che sperimentare. Ed è forse questo che ha reso le sue composizioni ancora più viscerali ed evocative, così capaci di parlare, di rappresentare qualcosa, sia essa un viaggio, un’attesa o un altipiano.
Così, anche i singoli brani di questo suo ultimo lavoro raccontano del ritorno di Paolo in Sardegna, con tutto il carico emotivo che questo si porta dietro. L’incertezza e la speranza per la partenza emergono nei fraseggi dell’overture, preludio perfetto per uno dei momenti più intensi del disco, tanto da dargli il titolo: un movimento di 18 minuti che narra della traversata in mare, con quel misto di impazienza, nostalgia e aspettativa che accompagna ogni rientro a casa e che si conclude con il rumore dell’acqua, gettata fuori con la sassola dopo essersi accumulata nello scafo. È finalmente Jar’a. L’entusiasmo per lo sbarco sulle coste galluresi è il volo di un futti ‘entu (il gheppio, ndr) sulla frenesia del ballo e delle campane a festa. Eccitazione subito liberata con unu sùlu, un lungo soffio, come quello dei cetacei che emergono dall’acqua al termine dell’apnea per riprendere aria. È qui che al respiro di Paolo si unisce quello di Omar Bandinu, bassu del Tenore “Mialinu Pira” di Bitti, che si lascia trasportare fuori dai canoni della tradizione, per interagire in totale libertà con gli intrecci di chitarra e – soprattutto – canto gallurese, in una difficile e inedita sintesi, celebrazione delle millenarie sfumature culturali di un’isola, che si amalgamano davanti agli occhi di chi vi fa ritorno. E come ogni riscoperta, anche questa percezione si assesta, si contestualizza e si normalizza: lanci nei vuoti delle Giare, sospinti da un rapido groppo di vento che, in poche battute, si porta via tutto. Jar’a è un disco che forse parla di tutto questo. O forse di tutt’altro. Non importa.
È di certo un lavoro importante, inserito, non a caso, dall’European Jazz Network, nella classifica dei migliori album di aprile, insieme a quelli di Floating Points e Pharoah Sanders, MEOW, Jakob Bro, Hedvig Mollestad e GoGo Penguin. Un disco che racconta la Sardegna e le sue dimensioni con occhi cosmopoliti, attraverso una declinazione post delle sue musiche, al contempo world, avant e free, fatta di sintesi ardite ma possibili, senza preconcetti né timori, al punto da renderle fruibili sia a chi ne è avvezzo, sia a chi non lo è affatto. Un risultato enorme.