Il racconto delle prime due giornate della ventiquattresima edizione del festival
Di Simone La Croce, foto di Daniele Fadda
Diceva bene il poeta inglese John Donne quando affermava che nessun uomo è un’isola, verso diventato celebre per aver dato il titolo all’omonimo saggio di Thomas Merton, ma che nasconde tanti significati impliciti. Uno di questi è che possono, però, esistere tante isole, abitate da uomini estremamente diversi tra loro, che in un modo o nell’altro riescono a convivere, sentendosi parte di qualcosa, piccola o grande che sia. E, al contempo, possono esistere anche persone meravigliose che quelle isole cercano di farle parlare, di fare in modo che si possano sentire parte di un tutto molto più grande e ancora meno definito.
Ecco, questa è la sensazione che si avverte a Palau, mettendo piede in mezzo alla grande famiglia che sta dietro a Isole che Parlano, il Festival Internazionale ideato e diretto dai fratelli Nanni e Paolo Angeli: una grande amalgama di tecnici, organizzatori, volontari, musicisti e spettatori, all’interno della quale spesso è difficile distinguere ruoli e gerarchie, e nella quale tutti, appunto, sembrano davvero sentirsi parte di qualcosa di cui non sembra nemmeno necessario scorgere i confini. Tutto questo nonostante il maltempo, le location saltate, le infinite complicazioni logistiche legate alla pandemia e le defezioni dell’ultimo momento: il grande lavoro svolto da ognuno di loro ha fatto sì che tutte le complicazioni fossero poco meno che percettibili. Perché ogni esibizione al festival viene pensata in relazione alla location scelta – boschi, tombe dei giganti, spiagge, isole – e l’ordinanza comunale che, a un mese dall’evento, ha vietato gli spettacoli all’aperto, costringendo a un ripensamento globale del festival, avrebbe messo in ginocchio chiunque. Ma non loro. I concerti si sono svolti ugualmente e nessuno si è accorto di niente: tante esibizioni uniche e irripetibili tra musicisti che mai avevano suonato insieme, all’insegna dell’improvvisazione, del coraggio, della sperimentazione e, soprattutto, del dialogo tra mondi – geografici, culturali e musicali – così lontani e diversi tra loro, che il festival porta avanti con grande coraggio da ormai 26 anni.
Un primo assaggio si è avuto durante l’anteprima svoltasi giovedì 10 all’Auditorium Multidisciplinare di Arzachena, dopo che la pioggia ha costretto ad abbandonare il set della Tomba dei Giganti Coddu Vecchju. Nostos – una fanfara transadriatica, è il progetto della violista Irida Gjergji e della violoncellista Flavia Massimo, che porta sul palco un viaggio per voci, archi, elettronica e loop station, dall’Albania all’Abruzzo, rispettive provenienze delle musiciste. Melodie strazianti e ipnotiche si fanno ritmo, oriente e occidente si incontrano nell’Adriatico per un connubio pop che, pur semplificando, arricchisce i brani di una dimensione più trasversale. Il loro viaggio tocca Bulgaria, Grecia, Kosovo, Romania e Macedonia, tra rivisitazioni di canzoni d’infanzia, ninnenanne e brani popolari; canzoni che parlano della riconquista di valori ignorati e ripudiati, canzoni pesanti e leggere allo stesso tempo, atmosfere malinconiche e decadenti sdrammatizzate dalla simpatia e dal piglio giocoso delle ragazze, abili tanto con gli strumenti, quanto con la voce. Semplificazione conseguente a tanta ricerca, storica e sonora, che porta a eseguire impasti melodici nei quali si fatica a scorgere le vere origini dei brani, ma dove è riconoscibile quella parte di Vecchio Continente alla quale la storia mai ha risparmiato gioie e dolori.
Con la Corsica a fare da sfondo in piazza libertà a Santa Teresa di Gallura, il pomeriggio seguente, si esibisce il duo formato dal gambiano Jabel Kanuteh e dal percussionista romagnolo Marco Zanotti. E non poteva esserci location migliore per uno spettacolo – Freedom of Movement – che parla di libertà di movimento, a ridosso di un mare tra due isole che parlano da millenni, attraverso il quale sono sempre transitate genti, lingue e culture. La voce di Jabel e la sua kora (strumento a corda tradizionale della famiglia delle arpe), ondeggiando tra melodia e ritmo, sembrano funzionare all’unisono, quasi da renderle indistinguibili. L’apporto di Zanotti, di impatto ma discreto e a tratti minimale, accompagna creando ritmo e atmosfera, la sua mano è rispettosa dell’incontro, in nome del dialogo, del confronto e del mutuo scambio di culture, soprattutto musicali, anche molto lontane tra loro. Musiche che riportano echi di medioriente ed evocano immagini di danze, con interessanti parti sperimentali, nelle quali ognuno abbandona il proprio background musicale per concedersi all’improvvisazione. Doveroso, in chiusura, l’appunto di Zanotti a ricordare come la libertà di movimento sia un pilastro della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e non una frivolezza da salotto.
In serata il festival torna a casa, alla Fortezza di Monte Altura a Palau, per l’esibizione del chitarrista Stefano Pilia. Partendo da pochi tocchi a vuoto sulle corde e da un grande lavoro sull’enorme assembramento di pedali analogici davanti a lui, crea rumori e suoni elettronici che spezza a più riprese con arpeggi effettati: la chitarra si fa così piano, viola, organo su sequenze noise e neoclassiche, con il rumorismo sempre presente, in un’alternanza sporcata, a fare del disturbo l’elemento cardine dell’esibizione. Le due facce si mischiano fino ad compattarsi in un unicum, in un continuo giocare sui suoni, tra improvvisazione e ri-esecuzione. Ogni accordo pulito lo resta solo per poco tempo, per poi decadere subito dopo, come se non dovesse restare tale. Le corde, percosse o sfregate con dita e archetto, suonano sempre acide, disturbanti, dissonanti. Il cambio di chitarra riduce l’impatto degli effetti e l’approccio a la Jonny Greenwood rende più evidenti le sue doti chitarristiche e lascia emergere la sua grande sensibilità per le atmosfere e l’emotività sonora. Chiude l’esibizione con una cavalcata post-rock in crescendo, un finale di suoni dilatati e distorti che sfocia nel noise e in un accenno folk blues con tanto di slide, subito riconoscibile, ma che non appena diventa familiare all’orecchio degli ascoltatori, sparisce nel suo ricorrente marasma sonoro.
La serata continua all’insegna dell’avanguardia: a seguire si prendono la scena Dalila Kayros e il producer Danilo Casti, che ripropongono e rivisitano i brani di “Transmutations”, ultimo album della cantante cagliaritana. Dalila danza scalza sulla sabbia granitica ai piedi della scalinata che conduce ai bastioni della fortezza, ondeggiando sulle raffinate suite elettroniche di Casti, puntando anche sulla presenza scenica, con movenze robotiche e futuristiche. Le musiche evocano scenari distopici e la voce aliena, solo in apparenza dominata a stento, viene fuori come se spingesse per farlo, controllata con grande padronanza. Uno spettacolo eterogeneo sul quale lo spettro di Bjork aleggia senza pudore, a tratti emotivamente carico, a tratti violento e angosciante, specie nelle parti prive di musica dove la Kayros canta solitaria, tra assenza e presenza. L’intesa e il sincronismo tra i due sono impeccabili, anche nei brani più frammentari e avanguardistici del disco, in un unico set ininterrotto fino all’ultimo brano e spezzato dalle performance solitarie di entrambi, nel quale si fondono, senza strappi, trip hop, EDM, chillout e techno.
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