Sa Scena ha incontrato Ana Kravanja, violinista di formazione ed eclettica anima polistrumentista della band slovena Širom, in scena nella serata di venerdì 10 settembre al faro di Punta Palau
Prosegue il percorso che ci avvicina alla scoperta della 25a edizione di Isole che Parlano, attraverso la voce dei protagonisti al femminile.
Ana Kravanja è voce, corde, percussioni e molto altro dei Širom, band slovena di “folk immaginario” e prima incursione del festival sulla scena internazionale con il tratto comune dell’improvvisazione e della commistione di genere.
Partecipa attivamente dal 2009 al programma dello Sploh institute, un laboratorio nato a Lubiana per unire i giovani nell’improvvisazione e che promuove il superamento dei confini creativi nei generi tradizionali.
Una scelta sofisticata dei fratelli Angeli, ben identificata nella personalità delicata ma estremamente concreta di Ana, performer d’avanguardia dall’anima rurale e simbolo di un approccio non convenzionale all’arte. Un inno alla semplicità il suo, nella musica come nella vita, che vuole essere un invito a spezzare le barriere liberandosi dalle sovrastrutture e ad accettare la diversità abbracciando con curiosità l’ignoto.
Una rivista musicale italiana (SentireAscoltare) ha definito la vostra musica “un folk imprendibile eppure immediatamente familiare”. È corretto dire che i Širom rendono la musica contemporanea familiare come il folk?
In tanti scrivono di noi riconducendo la nostra musica al folk, ma non vogliamo suonare come qualcosa che già esiste, di già sentito. Per questo motivo preferiamo definirci come “folk immaginario”, un’espressione che abbiamo coniato cercando di esprimere la nostra natura artistica che è quella di trovare strumenti e combinazioni di suoni unici.
Come musicisti siamo sempre stati interessati a diversi generi. Quando abbiamo iniziato a comporre musica con i Širom avevamo alcune idee di partenza su ciò che avremmo voluto suonare assieme, ma poi attraverso l’improvvisazione abbiamo capito che la nostra musica si è formata da sola, indipendentemente da noi. È come avere un’immagine idealizzata di chi si vorrebbe essere piuttosto che rivelarsi per come realmente si appare. Oggi, con gli anni, cerchiamo l’istinto nel seguire la musica che nasce dalle nostre improvvisazioni e di far emergere l’essenza di ciò che essa vuole rappresentare.
Fare avanguardia/drone nel 2021, con i tamburica e la kalimba, dimenticandosi dell’utilizzo dell’elettronica, è un qualcosa che romanticamente ci riporta alla corrente post-rock anni 90 in chiave acustica. In una tua intervista ho letto che in gioventù sei entrata a contatto con la cultura punk slovena, lo stesso Iztok Koren proviene da esperienze in band post-rock, punk e post-metal. Quali sono le influenze più underground e più lontane da quelle classiche nella musica dei Širom?
All’incirca vent’anni fa io, Samo (Kutin) e Iztok (Koren) abbiamo iniziato il nostro percorso in alcune band che suonavano rock, punk e hardcore. Ciò che, invece, ci influenza e ci ispira oggi nel comporre è tutt’altro. Io e Samo, ad esempio, siamo stati influenzati maggiormente dall’aver viaggiato in diversi Paesi (Africa, India, Sudamerica, Iran) ascoltando forme uniche di musica tradizionale ed entrando a contatto con culture, stili di vita e persone diverse. Penso che anche la vita che conduciamo sia considerabile come influenza, le situazioni quotidiane, il nostro passato, la storia della nostra cultura e, più in generale, qualsiasi cosa e chiunque ci circondi.
Il tuo approccio alla musica inizia a scuola a Divaca, con il flauto (non c’era un corso per violino). Anche in Italia l’approccio scolastico alla musica è il medesimo da tempi immemori. Qual è il tuo punto di vista su un approccio di questo tipo nell’avvicinare un’adolescente alla musica?
Sono stata l’unica della mia famiglia a voler frequentare una scuola di musica. E’ stato un processo indipendente e consapevole, un mio desiderio personale, nessuno mi ha spinto, o addirittura forzato, a intraprendere questa strada. Ritengo che fin da bambini abbiamo una coscienza in tal senso, nel sentire il bisogno di suonare. La vera questione è capire come la famiglia e l’ambiente in cui un giovane cresce e si forma contribuiscono e supportano in questa scelta nel tempo. A mio avviso dovremmo lasciare che i giovani (ma anche gli adulti) scoprano quanto è ampio e variegato lo spettro sonoro della musica che esiste in tutto il mondo, incoraggiandoli ad ascoltare e suonare. Se una persona ha coscienza e interesse nella musica, potrà sempre scoprirla, cercarla e raggiungerla, anche in età più avanzata. Quello che è essenziale è il desiderio, l’apertura al suono e alla musica.
Parlaci della tua esperienza con Sploh Institute, progetto nato a Lubiana per supportare i giovani artisti nell’improvvisazione, nella sperimentazione e nella composizione moderna non-convenzionale.
Nel 2009 ho conosciuto Tomaž Grom, uno dei direttori di Sploh che ha dato vita a un laboratorio settimanale di improvvisazione dove hanno trovato spazio molti giovani musicisti sloveni. Artisti che, diversamente, non avrebbero avuto occasione di entrare in contatto tra loro a causa di una netta divisione che esiste oggi tra i diversi generi di provenienza (classica, jazz, etno, rock). L’improvvisazione, in questo contesto, ha aperto i confini a noi artisti permettendoci di suonare insieme. Aver avuto la possibilità di praticare l’improvvisazione su base settimanale, per diversi anni e con diversi musicisti, ha rappresentato per me un’esperienza di vita preziosa e una nuova forma di educazione informale in ambito artistico. Con questi artisti collaboriamo, componiamo e suoniamo in diversi gruppi nati ad hoc.
Tra le varie attività, Sploh supporta diversi progetti mediatici, idee non convenzionali ed esperimenti creativi. Uno dei miei esperimenti è stato il progetto Glacies del 2014, un’improvvisazione, in parte composta, dove otto musicisti utilizzavano come strumento dei ripiani di frigorifero (https://www.youtube.com/watch?v=iiRS6cGiJDg). La performance è stata eseguita al Sound Disobedience Festival tenutosi a Lubiana.
Ho letto che una delle tue maggiori ispirazioni è stata la musica associata alla Butoh Dance, anche nota come “danza delle tenebre”. Alcuni momenti di improvvisazione nella vostra composizione sono emotivamente disturbanti, quasi mistici (mi riferisco anche all’utilizzo della linea vocale). C’è un parallelo tra queste due forme espressive o si tratta di un semplice processo di catarsi raggiunta con l’ improvvisazione?
In realtà è stata un’esibizione del musicista Seijiro Murayama e del ballerino Ryuzo Fukuhara, che ha avuto un’influenza decisiva sul mio percorso artistico. Era il 2009 e fu la prima volta che rimasi impressionata come mai fino allora da una performance artistica, in particolare dalla musica primitiva e minimalista di Murayama. Per me esprimermi in musica e cantare è sempre il risultato di stati emotivi diversi in cui mi trovo. La musica e, in particolare l’improvvisazione, è un riflesso diretto di ciò che siamo e di cosa ci portiamo dentro: il nostro passato, la bellezza che abbiamo visto o sentito, paure, traumi, desideri, emozioni e credenze. E tutta la musica che abbiamo ascoltato e suonato.
In una intervista hai dichiarato “you can not play free improvisation if you’re not free as a person”. Con Sploh hai contribuito attivamente a un progetto chiamato Sound Disobedience, uno spazio creato per potenziare e praticare l’improvvisazione da parte degli artisti. Per essere artisticamente liberi, secondo te, bisogna “disobbedire”? Come è diventata una libera improvvisatrice Ana Kravanja?
Per diventare un improvvisatore occorre avere interesse, curiosità e desiderio (o coraggio) di abbracciare l’ignoto.
Essere liberi come individui comporta, spesso, un lungo percorso da percorrere: riflettere, aprirsi e crescere sono elementi imprescindibili.
Disobbedire, in questo percorso, è un modo per seguire se stessi.
Ai Širom è associato uno spirito da strada, piuttosto che urbano: lo si percepisce non solo dalle composizioni ma anche dalle immagini dei luoghi dei vostri live (secret concert). A questo si unisce una forma di artigianato quasi rurale, da voi espressa nella realizzazione di strumenti auto-prodotti utilizzati nelle vostre composizioni. Al di là del non voler essere (giustamente) etichettati come musica tradizionale, c’è comunque una dimensione rurale/locale che vi rappresenta come individualità?
In passato, e per molti anni, abbiamo fatto parte di diversi movimenti DIY della scena underground slovena, abbiamo lavorato su base volontaria nei club di musica dal vivo, organizzato concerti e festival in diversi luoghi in Slovenia. Attualmente, io e Samo organizziamo un festival annuale in cui trovano spazio improvvisazione musicale, danza, teatro e arti visive, che si tiene nel villaggio in cui viviamo. E’ un festival rurale underground, nato dal contributo volontario delle persone, senza alcun apporto pubblico. Ci prendiamo cura di fattorie abbandonate dove avviamo delle piccole coltivazioni, preservandole dall’inverno. Sai cosa coltivi, sai cosa mangi. Inoltre, stiamo a contatto con la terra e possiamo osservare come le piante magicamente crescano.
Costruire strumenti musicali è, principalmente, il lavoro e la passione di Samo. Una passione che nacque dall’osservare o ascoltare strumenti speciali che non aveva mai visto prima. Fu così che iniziò a cercare di realizzarli da se.
Dal costruire o preparare un particolare strumento si può ottenere il proprio specifico e personale suono. Inoltre il rapporto che si ha con uno strumento realizzato dalla propria mano è sicuramente diverso, e all’inizio, quando si inizia a dargli vita attraverso il suono, assume un valore del tutto speciale.
Con la produzione industriale e la lavorazione meccanizzata, l’essere umano ha smarrito progressivamente il rapporto con gli oggetti. Tutto e’ diventato, inesorabilmente, impersonale. Personalmente ritengo che sapersi auto-organizzare e possedere l’arte dell’arrangiarsi siano qualità che oggi possono fare la reale differenza in ogni campo. Avere un’alternativa alla gretta filosofia del profitto tipica della società in cui viviamo è, a mio avviso, auspicabile per sviluppare idee, creare il/i proprio/i mondo/i, il proprio cibo, i propri abiti, i propri strumenti e la propria musica. O, più semplicemente, per (cercare di) avere una relazione più intima e speciale con tutto ciò che esiste.
La Sardegna, che a breve vi accoglierà, è una terra caratterizzata da un forte senso delle tradizioni. Ciònonostante, rassegne come Isole che Parlano sono caratterizzate da un pubblico dall’ascolto attento, che si è formato grazie alla crescente presenza di rassegne internazionali in cui improvvisazione e commistione di genere sono stati, negli anni, il filo-conduttore (i Širom ne sono dimostrazione). Tornando anche alla tua esperienza con Sploh, pensi che la presenza di questi format in un territorio possa abbattere certi preconcetti che legano l’artista all’immagine dello strumento tradizionale che suona?
Decisamente. Penso che sia necessario educare l’ascolto da parte del pubblico portando in scena e promuovendo forme di musica e performance che si basano sull’uso non convenzionale degli strumenti, delle voci e dei generi musicali. Lo si può realizzare, con successo, superando i confini del comune pensiero conservativo sulla musica, aprendosi ad accogliere nuove idee senza pregiudizio. È un processo di accettazione a cuore aperto del diverso e di ciò che è sconosciuto.
Parlaci della performance che i Širom hanno in programma per il 10 Settembre al Porto Faro di Palau. Cosa deve aspettarsi il pubblico sardo? Avete mai suonato ai piedi di un Faro sul mare?
Non vediamo l’ora che arrivi questo concerto! Suoneremo alcune nuove canzoni che abbiamo composto lo scorso inverno. Il pubblico sardo dovrebbe semplicemente rilassarsi e divertirsi. Quando non ti aspetti nulla, succedono le cose migliori.
L’anno scorso ero in gita su un’isola in Croazia e ogni sera improvvisavamo con gli amici vicino al faro, per gli uccelli, per il mare e per chi passava ogni tanto.
Un faro è sicuramente un posto molto speciale dove suonare!