Il racconto della performance del musicista di Buggerru all’Anfiteatro Comunale di Bauladu per la ventiquattresima edizione del Dromos Festival
Foto di Daniele Fadda
Non si esce indenni da un concerto di IOSONOUNCANE.
L’anfiteatro comunale di Bauladu è un semicerchio con scalinate in pietra. Al centro, ritto sopra la terra battuta, c’è il palco. Percussioni, sintetizzatori, chitarre, microfoni e dio solo sa cos’altro. Sembra di guardare il monolite nero di 2001: Odissea nello spazio.
Quella a Bauladu è l’unica data in Sardegna nel ‘third leg’ del tour di IRA, cominciato la scorsa estate dopo la pubblicazione del terzo album di Jacopo Incani. Se la prima parte della tournée ha visto il musicista di Buggerru portare in giro uno spettacolo con formazione a tre, successivamente IRA è stato riprodotto integralmente in sette concerti che hanno visto suonare su altrettanti teatri l’esatta formazione che ha suonato e registrato l’album: Jacopo Incani (voce, synth, chitarra), Serena Locci (synth, voce), Maria Giulia Degli Amori (percussioni, chitarra, voce), Simona Norato (pianoforte, mellotron, organo, voce), Amedeo Perri (synth, voce), Francesco Bolognini (synth, voce) e Simone Cavina (percussioni, voce). Regia del suono affidata alle sapienti mani e orecchie di Bruno Germano. Come lo stesso Incani ha precisato sui suoi canali social, il nuovo tour estivo prevede la stessa formazione senza l’esecuzione integrale di IRA, ma con «brani tratti dalla mia discografia e non solo».
Arriviamo all’anfiteatro intorno alle nove e mezza e c’è già parecchia gente. Più tardi guardandomi attorno mi renderò conto che l’arena è sold-out. La presentazione della serata è nelle mani di Marta Loddo, portavoce di Dromos che cita Il saltimbanco di Palazzeschi come introduzione alla serata per poi ringraziare Du’ Music Festival e la giunta, anzi, le giunte comunali (entrante e uscente) di Bauladu per l’organizzazione.
Daniela Pes sale sul palco, voce e chitarra elettrica per proporre una versione “ridotta” di alcuni brani che andranno a finire sul suo primo album per la produzione di Incani stesso. «Sono felicissima di aprire IOSONOUNCANE a Dromos e a casa». Il primo pezzo, Laira, dà subito la dimensione del set: fingerpicking soffici alternati a intensi strumming (qua e là ricordano l’andamento ossessivo, ipnotico ed essenziale di certo post-rock), accenti sui levare e ritmi sincopati. La voce della cantautrice gioca su una gamma di registri e dinamiche ampia: A te sola, brano di chiusura dell’esibizione, la vede spingere il cantato all’estremo nel finale con un controllo della voce fuori dal comune. La grande curiosità, a questo punto, è ascoltare come saranno vestiti questi brani sul disco. Pes saluta più volte il pubblico che le tributa un meritato applauso, poi scende dal palco. Qualche minuto ed è il turno della Mandria.
Si parte con il tribalismo ancestrale e martellante dell’inedito Iman che cede il passo a Ashes e Foule. Non è il concerto di Jacopo Incani con la band – d’altra parte lui stesso ha ribadito in più occasioni di considerare IOSONOUNCANE come un collettivo e non come un progetto singolo. È come se fossimo al cospetto di un unico monstrum (nell’accezione latina del termine) a sette teste e altrettante voci, un’orchestra luciferina senza volto immerso in un oceano di luci policrome. E l’esibizione è quasi un rito sciamanico. Me ne rendo conto guardando le facce dei presenti: chi tiene gli occhi fissi sul palco, chi fa ondeggiare la testa seguendo l’andamento percussivo, tutti presi da una sorta di trance collettiva. IRA è l’estasi marziale tirata indietro di Prison, la furia cieca di Jabal. Incani sussurra un «Buonasera» al microfono a metà concerto prima di lanciarsi nell’arpeggio di Giugno, direttamente da La Macarena su Roma: «Poi nel penultimo sogno ero vivo e c’eri tu». Quando la sua coda psichedelica scivola via, lasciando il pubblico atterrito come a dirsi “E ora cosa ci aspetta?”, parte il sample di una voce atavica che sembra venire direttamente dalle viscere della terra. È il momento di Tanca e l’anfiteatro esplode.
Il sabba giunge al termine: Hajar e il suo asfittico climax giunge al culmine in una danza dissennata di quasi cinque minuti di fusione tra il fragore strumentale e il disegno luci epilettico. La chiusura è affidata all’inedito Sacramento e a quella frase ripetuta con incedere intimo: «Ciò che fu mi seppellirà». La band lascia il palco un membro alla volta, mentre il pezzo continua a procedere sgonfiandosi pian piano sino a sparire quando i due percussionisti chiudono bruscamente l’ultimo accento. Nessun bis: le luci si riaccendono, il concerto è finito. E a ben pensarci questo era il modo migliore, l’unico forse per chiudere al meglio un’ora e mezza di ipnosi generale. Qualcosa di me è rimasto su quei gradoni in pietra, in qualche bordone acuminato. IRA ha lasciato (di nuovo) il segno: non si esce indenni da un concerto di IOSONOUNCANE.