Davide Melis è il regista che è stato dietro alla macchina da presa sul set di In Su Corru ‘e Sa Furca, la serie realizzata da Karel Produzioni andata in onda per due stagioni in questi ultimi anni. Ma Davide ha un lungo trascorso nel mondo visual: dopo aver lavorato per anni per diverse televisioni come fonico, montatore e tecnico video, insieme al fratello Luca ha messo in piedi Karel, una cooperativa che si occupa di produzioni documentaristiche e cinematografiche, con il ruolo di Direttore tecnico ed è autore e curatore di spot pubblicitari, documentari, redazionali, filmati aziendali, come regista, graphic designer e art director. Un percorso lungo e articolato nel quale la musica ha sempre occupato un ruolo fondamentale. In Su Corru ‘e Sa Furca è solo la sua ultima creazione in ordine di tempo. Ha infatti diretto l’acclamato A bolu del 2019, A S’Orgolesa, entrambi sul canto a tenore, Joe Perrino e Giovanna Maria Boscani in Per grazia non ricevuta e ha curato il montaggio de L’isola di Medea di Sergio Naitza, sull’incontro tra Pasolini e Maria Callas. In questa sostanziosa intervista abbiamo parlato di tutto questo, di quanto la musica sia stata centrale nella sua carriera, delle sue influenze cinematografiche, del bando Imprentas e anche del futuro di In Su Corru ‘e Sa Furca.
Ciao Davide, tra le varie cose di cui ti sei occupato nel tempo, probabilmente Karel Produzioni è quella che più ti ha tenuto impegnato. Nei quasi trent’anni che sono passati dalla sua fondazione, tante cose sono cambiate nel panorama cinematografico sardo, su tutte probabilmente una maggiore visibilità oltre mare delle produzioni isolane. A cosa credi sia dovuto principalmente questo cambiamento?
Karel Produzioni è costituita da me e mio fratello Luca. Abbiano messo l’anima nella società e abbiamo combattuto – e combattiamo tutt’ora – per resistere in Sardegna. Insieme all’azienda negli anni siamo cresciuti sia professionalmente che artisticamente. Siamo diventati produttori per poter fare quello che più ci gratifica: nel mio caso l’autore e il regista, il direttore della fotografia nel caso di Luca. Oggi ci occupiamo prevalentemente di produzioni culturali, anche se non disdegnamo certo i lavori istituzionali e commerciali, quando riusciamo a intercettarli.
Mi auguro che la maggior visibilità sia dovuta a una maggiore qualità – formale e sostanziale – delle produzioni sarde e alla crescita delle case di produzione, che oggi si confrontano senza timori reverenziali con quelle di altre realtà più strutturate. Ne è conferma anche il fatto che tante produzioni sarde trovano spazio nei maggiori festival cinematografici nazionali e internazionali.
Hai prodotto e realizzato film e documentari, ma sei anche sempre stato un grande appassionato di musica. Ci piacerebbe sapere quali sono stati i tuoi primi ascolti e quali artisti contemporanei segui invece oggi.
Posso dire di essermi avvicinato al cinema anche grazie – o a causa – della musica. Quasi tutti i miei autori preferiti fanno della musica – soprattutto quella non originale – uno degli strumenti principali del loro linguaggio e sono tanti quelli con cui condivido i gusti musicali. In ordine sparso posso citare, oltre a Cronenberg, Lynch, Wenders, Jarmush, Stone, Tarantino, Boyle, Lee, anche i più classici Kubrick, Coppola e Scorsese, non a caso amico degli Stones. Tutta gente di cui non si discutono i gusti musicali, oltre le qualità cinematografiche.
Tornando alla mia formazione musicale, sono cresciuto negli anni ‘70, figlio maggiore di genitori molto giovani non particolarmente appassionati di musica che, per fortuna, non ascoltavano solo i Cugini di Campagna, ma pure Beatles e Stones. Poi sono stato sempre curioso e sul finire degli anni ‘70 in TV andavano programmi come Odeon, Tutto quanto fa spettacolo e L’altra domenica, dove fra le varie cose capitava di sentire Pistols e Ramones. Non dico che a 10 anni andavo a cercare i dischi dei Television o dei Suicide. ma sicuramente quei servizi hanno deposto un seme che qualche anno dopo è germogliato facendomi innamorare della musica rock e punk. Ed è stato grazie a punk e post-punk che ho scoperto i classici “classici”: Stooges, Bowie, Velvet Underground prima, poi i suoni più estremi e passare da Killing Joke a Throbbing Gristle è stato un attimo. E poi il ritorno al rock rumoroso negli anni ‘90 con Sonic Youth, Mudhoney e Dinosaur Jr.
Oggi devo dire che i miei gusti sono piuttosto variegati, ma devo ammettere di avere difficoltà a orientarmi nel panorama musicale odierno. Sono nato in un tempo in cui le etichette discografiche indipendenti erano un riferimento e le poche riviste serie, insieme a qualche rara trasmissione radiofonica ti davano le coordinate. Oggi, che tutto è disponibile in streaming e chiunque, giustamente, può pubblicare la sua musica, un po’ mi perdo.
Questa risposta ci porta dritti a parlare delle scene isolane e di In su corru ‘e sa furca. Prima della produzione del format avevi idea di quanto potesse essere vivace oggi la scena musicale sarda? E in particolare quella in lingua?
Un po’ si, diversamente non mi sarei avventurato in un progetto – in lingua sarda – che prevedesse la presenza massiccia di musica e musicisti. Purtroppo, tra lavoro e famiglia, non ho più la possibilità di seguire la scena locale come un tempo, ma una certa esperienza diretta della scena musicale sarda posso dire di averla. In gioventù ho rovinato il suono di diverse band, seguendoli come fonico e persino registrando – malissimo – demotape e qualche disco. Con qualcuno di loro sono persino rimasto in buoni rapporti! Comunque grazie a In Su Corru ‘e Sa Furca ho realizzato che la presenza della lingua sarda nella scena musicale è più ampia di quello che pensassi e assolutamente “trasversale” per generi e temi.
E c’è stato qualche progetto che ti ha colpito in maniera particolare?
Tutti quelli che hanno preso parte alla serie sono progetti di grandissimo valore. sicuramente qualcuno mi ha colpito più di altri, ma più per maggiore affinità con i miei gusti musicali che per valore assoluto. Nella prima stagione ho affidato la selezione dei musicisti a Diego Pani e ho potuto constatare l’abbondanza di proposte musicali in lingua sarda, tanto da decidere di incrementare la componente musicale nella seconda stagione, dove mi sono occupato direttamente della scelta, avvalendomi della preziosa consulenza di Sa Scena. Ho avuto modo così di tastare direttamente la scena sarda e devo dire che quello che mi ha colpito maggiormente è stato l’altissimo livello, la quantità e la varietà delle proposte musicali in lingua. Devo ringraziare tutti i musicisti che hanno accettato il mio invito a partecipare alla serie con entusiasmo ed estrema disponibilità.
Prima hai giustamente parlato dei tuoi ascolti durante gli anni ‘80 e ‘90, che, essendo del ‘68, hai vissuto in pieno. Com’era visto allora il ricorso alla lingua sarda nelle produzioni musicali più “alternative”?
Devo dire che allora noi ragazzi cagliaritani al sardo proprio non pensavamo. Alla mia generazione l’uso del sardo è stato negato, i miei nonni lo parlavano, ma non con me. Ascoltavo musica anglofona, quindi neppure l’italiano nei miei ascolti era un’opzione. Poi sono arrivate le Posse che hanno iniziato a usare il sardo, ma sono stati i Kenze Neke a farmi capire che il sardo, in particolare il logudorese, è una lingua per certi versi molto più adatta dell’italiano alla musica rock. Oggi credo sia diverso. Mi sembra di percepire, specie fra i più giovani, il desiderio di riappropriarsi della lingua sarda, forse anche un modo per affermare la propria identità in un mondo forse troppo globalizzato e sicuramente globalizzato male. Trovo che questo interesse sia una cosa molto positiva e spero che anche i nostri lavori servano a far avvicinare più persone possibili alla lingua.
Spesso poi si tende a considerare con troppa superficialità la lingua sarda come poco adatta a trattare questioni specifiche e contemporanee per le quali non si pensa esista una terminologia appropriata, anche al di là degli inglesismi. Nella trasmissione in lingua si è parlato un po’ di tutto, dalla musica alla letteratura alle nuove tecnologie. Avevate anche voi questo timore prima di iniziare?
Assolutamente no. Oltre che regista sono autore della serie e con In Su Corru ‘e Sa Furca volevamo dimostrare proprio che il sardo può essere lingua comune, viva, con cui trattare ogni aspetto della vita quotidiana, compresi quelli della modernità. Per questo motivo non mi sono mai messo il problema di “giustificare” l’uso del sardo nella serie: In Su Corru ‘e Sa Furca si parla sardo perché il sardo è la lingua di In Su Corru ‘e Sa Furca, stop! Certo, non è stato semplicissimo mettere insieme un cast così variegato di sardoparlanti, ma alla fine ci siamo riusciti. Con quali risultati non sta a me dirlo…
Questa, come tante altre iniziative simili di questi ultimi due anni, è stato possibile realizzarla grazie anche al bando Imprentas, con cui la Regione ha incentivato l’uso della lingua sarda e delle altre lingue e varianti presenti sull’isola (catalano, tabarchino gallurese e sassarese). Quali ritieni siano le ricadute reali in termini “culturali” di un’iniziativa della Regione come questa?
Il bando imprentas ha un ruolo fondamentale per la promozione dell’uso della lingua sarda. Mette a disposizione risorse altrimenti difficilmente reperibili con progetti in lingua sarda. Oggi grazie al bando (che ricordo finanzia oltre che produzioni televisive anche stampa, editoria, radiofonia ed emittenza) si producono centinaia di ore all’anno di trasmissioni televisive originali in lingua sarda. Ma proprio la massiccia risposta dei produttori oggi dimostra che probabilmente nell’assegnazione delle risorse si dovrebbe dare maggiore attenzione alla qualità e – perché no – all’innovatività delle trasmissioni piuttosto che alla loro durata. Si aumenterebbe così l’attrattività delle produzioni per un pubblico più vasto e non necessariamente solo sardo.
Sempre a proposito di Sardegna, ti sei dedicato anche a due importanti documentari sul canto a Tenore, l’acclamato A bolu del 2019 e A S’Orgolesa dell’anno scorso. Cosa ha potuto scoprire un non addetto come te nel girare questi lavori?
Devo fare una breve premessa: la mia frequentazione “professionale” con la musica sarda viene da lontano, da quando, ancora ragazzo, lavorai alla realizzazione delle prime stagioni di “Sardegna Canta in piazza”. Ecco, quell’esperienza mi rese totalmente intollerante al folklore e persino allla musica etnica da cui, per tantissimi anni, mi son tenuto alla larga. Nel 2012 – mi pare – girai un documentario sul Supramonte. Mentre giravamo casualmente mi sono imbattuto nel Tenore Supramonte di Orgosolo che cantava in giro per il paese e lì abbiamo seguiti. Avevano un tiro pazzesco, non me ne voglia il mio amico Franco Davoli (sa oche) per il paragone, ma mi fecero venire in mente i Clash, “the only band that matters”, per quello che cantavano e per come lo cantavano. Anche se il documentario prevedeva – volutamente per non ricadere nel folklore – una colonna sonora totalmente elettronica, ispirata a certe cose strumentali degli Young Gods, decisi di chiedergli di cantare un pezzo in chiusura. Franco mi suggerì una magnifica poesia (un sonetto di Remundu Piras) che parla dell’orgoglio e dell’amore del poeta per le sue montagne, con la quale chiusi il documentario.
Quel brano è diventato pure un videoclip con oltre 1,3 milioni di visualizzazioni (e quasi 900 commenti) su Youtube. È stato proprio questo videoclip e le reazioni che ha suscitato, a convincermi dell’importanza di rappresentare il canto a tenore lontano da stereotipi e folklorizzazioni. Da quel momento si è sviluppata una profonda amicizia ed è nato così A Bolu, scritto con Bustianu Pilosu, massimo esperto di canto a tenore, con cui ho scritto anche la serie “A Boghe Leada“ che parla del canto a tenore nei suoi principali contesti tematici.
Prima di dedicarti a SCSF, in ambito cinematografico hai curato il montaggio de L’isola di Medea di Sergio Naitza, che racconta dell’incontro tra Pier Paolo Pasolini e Maria Callas in occasione del film “Medea” del 1969, e hai diretto Joe Perrino e Giovanna Maria Boscani in Per Grazia non Ricevuta, un documentario sui luoghi di detenzione in Sardegna. Hai avuto modo di interessarti al connubio cinema-musica e a noi l’interdisciplinarietà piace sempre tanto. Quindi vorremmo chiederti, da regista, quale credi sia il valore aggiunto derivato dalla fusione di due arti come queste rispetto alla loro esistenza come arti isolate?
Per me la fusione “interdisciplinare” è scontata. Come ho già detto la musica è da sempre parte fondamentale della mia vita, della mia formazione e sempre sarà la principale influenza e ispirazione anche nella mia attività di regista e autore. Ho in mente la musica “giusta” dal momento in cui inizio a scrivere un progetto. Scrivo con la colonna sonora in testa e giro pensando al ritmo “musicale” delle scene che poi finalizzo nel montaggio. Purtroppo usare musiche edite sincronizzate alle immagini ha dei costi impossibili per piccolissime produzioni come le nostre, però ho la fortuna di collaborare con bravissimi musicisti, per lo più amici di lunga data, che riescono a comprendermi – e non è facile! – e restituirmi le sensazioni della musica che ho immaginato per quel lavoro. Per In Su Corru ‘e Sa Furca avrei avuto bisogno di almeno 10 milioni di euro per ricreare le musiche che avevo in mente. Alla fine ho usato solo il brano dei King Howl nei titoli e per il resto musica diegetica suonata live dalle band nel locale ed è andata bene così. Però alcuni dei dischi che mi hanno ispirato appaiono in qualche inquadratura!
In conclusione ti chiediamo cosa puoi anticiparci sulla prossima stagione…
Purtroppo non ci sarà una terza stagione. L’ho realizzato durante le riprese della seconda: 12 episodi da un’ora ciascuno in 10 giorni di produzione. Sono avvezzo a girare velocemente con budget risicati, ma questa volta è stato troppo anche per me. Nonostante abbiamo compresso la produzione in soli 10 giorni, le risorse del bando Imprentas non erano sufficienti a coprire le spese e abbiamo sopperito con risorse di Karel per chiudere il budget, perché, sia noi che i partner, credevamo nel progetto. Ma purtroppo è difficile pensare che una serie così lunga dialogata esclusivamente in sardo possa avere un qualche riscontro commerciale. Ma oltre le ragioni economiche ci sono anche motivazioni artistiche più personali. Se al termine della prima stagione ero molto soddisfatto del risultato nonostante le ristrettezze, alla fine della seconda ha prevalso il rammarico per non aver potuto fare quello step evolutivo che avrei desiderato. Ho pensato alla serie come un prodotto più vicino al cinema d’autore che a quello della televisione, ma le risorse erano veramente troppo esigue e non ho potuto lavorare come avrei voluto sulle parti di fiction e sulle ambientazioni.
Peccato, a nome di Sa Scena. Quale sarà a questo punto la prossima produzione Karel?
Per il momento abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso. La prossima produzione “Imprentas” sarà una serie sul lavoro, quello faticoso, duro e sporco. E la musica? Ci sarà, eccome se ci sarà, visto che la serie sarà interpretata da Luca Marcia (aka Malignis Cauponibus, ndr).
Comunque non è un addio. In Su Corru ‘e Sa Furca non muore qua. Non del tutto almeno. Sto preparando una versione one-off della prima stagione che uscirà a breve e, in ogni caso, mai dire mai. Sono affezionato a quel bar e trovando le risorse giuste non mi dispiacerebbe “riaprirlo”, magari con qualche novità, chissà, potrebbe persino cambiare sede, magari vicino a Pompu.
Allora teneteci aggiornati. Quando riaprirete passeremo nuovamente a trovarvi.
Grazie Davide, a presto.
Certo, vi terrò aggiornati e in caso di riapertura questa volta faremo più “rumore” e Sa Scena sarà ospite d’onore all’inaugurazione. Grazie a voi.