paolo angeli - sa scena sarda - simone la croce - intervista - 2019

Paolo Angeli intervistato da Simone La Croce

Simone La CroceInterviste

Un’appassionante chiacchierata intorno a Free Radiohead e allo sconfinato mondo musicale del chitarrista gallurese

Abbiamo raggiunto telefonicamente qualche mese fa, mentre lui era a Barcellona e si apprestava a partire per una serie di date in giro per i continenti. Il pretesto è stato l’uscita del suo ultimo album, 22.22 Free Radiohead (AnMa, ReR Megacorp, 2019), un meticoloso lavoro di decomposizione e riassemblamento delle musiche del quintetto dell’Oxfordshire, ma si è parlato anche di tanto altro. Paolo ha raccontato di come questo incontro, avvenuto solo qualche anno fa, lo abbia talmente impressionato al punto di volerne fare un disco. Per lui che veniva dalle avanguardie e dalla chitarra gallurese, non è stata un’impresa semplice. Ha dovuto mettere tutto in discussione per poi rifonderlo in un’esperienza musicale nuova ma sempre sua, con tutto il background che si portava dietro, dalle avanguardie al freejazz, dal minimalismo alla scuola di Canterbury. Inevitabilmente l’ si è trasformata in una lunga e piacevole chiacchierata. Ve ne proponiamo un estratto ragionevole. Non è stato semplice tagliare e il risultato richiede dieci minuti della vostra attenzione. Ma siamo certi che ne possa valere la pena.

Buona lettura.

paolo angeli - sa scena sarda - simone la croce - intervista - 2019- 2019 -

Ciao Paolo. Inizierei subito con il tuo lavoro sui Radiohead. Durante il concerto alla Vetreria di Cagliari hai detto di averli scoperti per caso. Com’è andata?

Io sono della loro stessa generazione ma nel periodo in cui erano al loro apice non li ho “incontrati”. Pur arrivando dal rock, ho in qualche modo bypassato quegli anni e quella musica: ascoltavo cose molto più radicali e avanguardistiche.

Quando li ho scoperti, casualmente, due anni fa, pensa che non sapevo neanche che fossero loro. Credo che il fatto di non avere alcun tipo di condizionamento primario per me sia stato molto importante. Successe con Daydreaming. Al primo ascolto mi aveva colpito molto l’uso moderno dell’elettronica minimale, con chiari riferimenti al minimalismo storico e a certe aree di art-rock d’avanguardia. Molti dei miei ascoltatori non conoscono i Radiohead, si approcciano al mio concerto senza avere riferimenti precisi e ne hanno una visione profondamente diversa.

Hai detto anche che in Ok computer, Kid-A, Amnesiac e, immagino, anche A moon shaped pool, hai trovato qualcosa che ti ha fatto scattare la scintilla. Di cosa si tratta?

Ho ritrovato tanto del mio background musicale, una rilettura attualizzata di avanguardie che avevo seguito in passato, ma rese più semplici e fruibili grazie alla forma canzone.

Poi ho sentito Airbag ed è arrivata la botta della nostalgia del rock (ride, ndr). Ma anche in quel caso il bassista non lavora da bassista e suona note che sembrano piovere casualmente. La batteria è filtrata, compressa, con un lavoro di post produzione che mi affascina tantissimo, rendendo la forma canzone complessa e destrutturata. Poi nella parte finale c’è quest’esplosione punk-noise che mi ha ricordato molto The Ex, gruppo olandese che ha fatto la storia del punk di avanguardia con sconfinamenti anche nel free-jazz.

In Kid-A invece la convergenza tra rock e avanguardie è molto più dichiarata, con sezioni di fiati che suonano palesemente free e che sembrano arrivare direttamente dai momenti più sperimentali di Charles Mingus, Peter Brötzmann o Mats Gustafsson.

Nel disco si ha come la sensazione che tu a un certo punto abbia aperto un vaso di Pandora. Come un bambino che scoperchia un cesto di giocattoli con i quali non aveva mai giocato.

In cosa questi giocattoli erano così diversi dai tuoi precedenti?

Io sono uno fissato con i dettagli, specie nel mio approccio alla musica. Mentre preparavo l’album ho ascoltato tantissimi live dei Radiohead. Così ho scoperto che il loro approccio non era volto ad affermare le individualità ma a creare un amalgama al cui interno ci potesse essere spazio per tante piccole variazioni sul tema. In alcune parti di chitarra Jonny Greenwood accenna solo alcune note effettate lasciando pulite le altre. Sono lavori di cesello estranei alla cultura rock, dove invece i chitarristi sparano mille note al secondo, ostentano virilità. La storia del rock è costellata dall’ostentazione del solo, dalla ricerca del momento epico in cui il chitarrista si prende la scena facendosi frontman. Nei Radiohead tante linee viaggiano in parallelo, compenetrandosi in maniera interdipendente. Quindi, per rispondere alla tua domanda, mi aveva colpito il loro approccio compositivo, semplice all’ascolto, quindi fruibile, ma con una grande complessità al suo interno.

Sono rimasto molto sorpreso che un musicista come te, nato all’inizio degli anni ‘70, abbia scoperto i Radiohead così avanti negli anni. Come ti rapporti alla musica che ascolti e come la relazioni alla musica che fai?

I Radiohead li ho scoperti solo negli ultimi due anni, durante i quali, però, c’è da dire che ho ascoltato quasi esclusivamente loro. Riconosco di avere un approccio monomaniacale con certe scoperte che mi colpiscono in modo particolare. Entro in crisi facilmente, perchè ho bisogno costante di sentire che sto crescendo e sto cambiando. Entro in crisi anche se faccio riferimento al mio passato musicale. Non lo so spiegare…Subentra una sorta di frenesia nella quale sono assalito dall’ansia del tramonto creativo, che colpisce, o dovrebbe, un po’ tutti i musicisti. Da un lato vivi un’affermazione professionale e lavorativa dovuta in parte alla riconoscibilità del tuo stile; dall’altro io per primo vorrei non riconoscermi e sorprendermi sempre con suoni nuovi, con qualcosa che mi sposta dal mio baricentro. Quello che mi incuriosisce inizio a scomporlo, a smantellarlo come in un cubo di Rubik, fino al momento in cui coincidono tutti gli elementi e finalmente arrivo a comprenderlo. A quel punto questa frenesia si esaurisce, smetto di ascoltare, qualcosa si spegne e devo cercare qualcos’altro su cui fare lo stesso lavoro.

Non tutti i musicisti però sono spinti dalla curiosità nella composizione…

Ogni musicista ha una affermazione del proprio io che lo porta a collocarsi all’interno di una famiglia musicale. Così ascolta principalmente musiche appartenenti al genere che lui stesso pratica. Per me spesso succede l’esatto contrario.

Nel tuo modo di approcciarti ai brani si intravede una certa logica decostruttivista, nella quale la forma canzone viene smontata e ricomposta secondo stilemi di certo anticlassici. Un po’ come succede con certi gruppi come i Sigur Ros, i Black Heart Procession, i Mogwai e più in generale il post rock. Ascolti questi gruppi?

I Sigur Ros si, li seguo. Ho ben presente il post rock e le soluzioni musicali che propongono quei gruppi. Tant’è che io mi ci sento un po’ post-rock, come nei brani Icaro o nel mio arrangiamento di Nude.

Considera che io sono cresciuto a Bologna nel periodo dei Massimo Volume. Ho studiato al DAMS con Egle (Sommacal, ndr), conoscevo bene Emidio (Clementi, ndr) e Vittoria (Burattini, ndr). In quella scena era comune che avanguardia e rock facessero percorsi paralleli. Noi facevamo più riferimento alla scena di Canterbury, ai Soft Machine, Henry Cow, Fred Frith e al rock più sperimentale degli anni ‘70. Sono un fan degli Skeleton Crew (Fred Frith e Tom Cora). Anche la loro forma canzone era destrutturata. In certi brani suonano in due o in tre ma sembrano 300. Tom Cora è stato colui che mi ha ispirato per l’uso dell’arco con la mia chitarra.

paolo angeli - sa scena sarda - simone la croce - intervista - 2019

A proposito di questo. Ho letto di lunghi flussi di improvvisazione, che ho immaginato senza soluzioni di continuità. E questo traspare anche dalle tue esibizioni. Si vede che ci prendi gusto. Ma a un certo punto dovrai bloccare la struttura della canzone. Come fai? Ti fermi e scrivi delle partiture? Come capisci dove e quando fermarti per dare forma alla canzone?

Hai notato che anche nel rispondere a semplicissime domande ogni riferimento che faccio ne richiama degli altri e apro tante parentesi, tante finestre? Ecco, quando suono sul palco mi accade un po’ la stessa cosa. Mi è successo anche alla Carnegie Hall di New York. Anche nei pochi casi in cui ho una scaletta, introduco con una breve improvvisazione, penso già al brano successivo ma un passaggio mi suggerisce qualcos’altro. Così riprendo a improvvisare e stravolgo completamente la lista dei brani che pensavo di eseguire.

Funziona come un enorme database di informazioni, dal quale attingo per prendere elementi e rimontarli sempre in modo diverso. Esattamente l’opposto di un mosaico dove hai tutti i pezzi e devi ricomporlo per ricostruirne il disegno. Il mio processo compositivo parte fondamentalmente dall’improvvisazione. Poi, a un certo punto, mi accorgo che qualcosa accade. In quel momento mi fermo e registro. Lo riascolto e lavoro intorno a quell’idea per dargli una forma, finché non realizzo che dall’esterno può reggere l’ascolto. Con la mia chitarra, strumento molto complesso, non è semplice trovare quella giusta distanza dall’oggetto musicale che ti consenta di capire se un brano possa essere effettivamente convincente..

Altre volte, invece, sono in viaggio, mi appare in testa una linea melodica, butto giù due appunti e quando torno a casa provo ad orchestrarla. Ma normalmente succede quello che ti ho descritto prima.

Com’è stato, quindi, lavorare su musiche composte da altri musicisti?

Non è stato affatto semplice. Ho dovuto prima capirla, poi smontarla e infine dimenticarla. Solo così ho potuto farla mia e rielaborarla. L’urgenza espressiva di Thom Yorke non può essere la mia. Ho cercato un modo di suonare la loro musica evitando che mi annoiasse dopo una settimana. L’unico modo era costruirmi un database di piccoli frammenti Radiohead che io potessi usare a mio piacimento.

Nel disco si possono sentire influenze arabe, mediterranee, sarde. Non sembrano suggestioni scaturite dall’ascolto dei Radiohead. Ma immagino non siano nemmeno solamente quelle che ho sentito io. Che altro c’è?

In Andira il riferimento è un certo art-pop nord europeo, con soluzioni armoniche che rimandano più ai Sigur Ros che alla musica sarda. Notti D’ea invece ha un’esposizione quasi free nella parte finale. In generale l’idea di fondo era quella di portare i Radiohead nel cuore di un’isola del mediterraneo. Un’idea nata un pomeriggio a Carloforte, dove ricevevano solamente stazioni radio a onde medie. Siamo rimasti bloccati durante un temporale sotto il faro di Capo Sandalo e abbiamo ascoltato solamente musica mediorientale, tunisina, con ritmi tribali incalzanti, archi e percussioni. Ancora non riuscivo a capire se avesse senso o meno fare questo lavoro. Ci vedevo una sorta di tradimento del mio percorso. Ma lì ho capito che per fare mia quella musica, avrei dovuto riproporla con tutto il bagaglio che mi porto appresso di uomo del mediterraneo: dal flamenco, alla musica sarda, passando per le arcate arabe. E personalmente sono molto contento del risultato. Può piacere o meno il disco, ma io, sinceramente, credo di aver trovato il mio punto di incontro per tutte queste anime.

Nel disco ti diletti anche nel canto gallurese, cosa abbastanza inusuale per te…

Una delle ragioni per cui ero combattuto se fare o meno questo album, era proprio il canto. Non pensavo assolutamente di voler cantare un pezzo dei Radiohead. Non mi sono mai sentito cantore. Però dal ’93 ho fatto bottega con il più vecchio chitarrista sardo, che in dieci anni mi ha insegnato tutto il repertorio del canto a chitarra gallurese e logudorese. Ho fatto tante settimane Sante – Castelsardo, Aggius, Santulussurgiu, Cuglieri – dove ho potuto imparare direttamente il repertorio dai cantori. Per me il canto è legato strettamente alla musica tradizionale sarda. Ma l’idea che rimanesse tagliato fuori non mi andava. In 22.22 ho cercato di utilizzarla così come l’ho imparata ma con un supporto di arrangiamento che la renda contemporanea.

paolo angeli - sa scena sarda - simone la croce - intervista - 2019

A questo punto mi interesserebbe capire il tuo punto di vista sulla contaminazione tra musica tradizionale e musica contemporanea. Come ci si può approcciare alla sua rivisitazione senza speculare su di essa ma, soprattutto, senza snaturare una cultura che meriterebbe invece rispetto?

Prova a immaginare il punto di vista di un musicista che studia per dieci anni con il più anziano maestro di chitarra sarda, che ha iniziato a suonare quasi un secolo fa. A me ha trasmesso la memoria storica di quella tradizione, che, a sua volta, ha appreso e fatto sua. È un passaggio di testimone nel quale cedi anche la tua personale visione di quello che ti è stato trasmesso. Giovanni Scanu solo dopo dieci anni mi ha detto “Bravo, ora la conosci, sei pronto per suonare la musica sarda”.

Credo che fare dei lavori superficiali sulla musica tradizionale riveli in qualche modo una forma di colonialismo culturale, atteggiamento frequente nei confronti delle culture minoritarie. La world music spesso ha avuto un approccio da cartolina con le musiche di tradizione, realizzando progetti di impronta tendenzialmente occidentale con sonorità che li rendono esotici, tralasciando però certe complessità e caratteristiche. A mio avviso c’è bisogno di molta sincerità e di rispetto quando ci si approccia alle tradizioni, oltre che di molto amore e conoscenza della materia.

Da parecchio tempo però assistiamo a ogni genere di sperimentazione. Che conseguenze credi questo possa avere per le musiche tradizionali?

È normale che in questo momento si sperimenti qualsiasi cosa. Non credo che la musica tradizionale rischi di rimanere schiacciata da questa sperimentazione. Sono musiche che viaggiano su un binario parallelo. Ogni paese della Barbagia continua ad avere differenti forme di canto a tenore, ad esempio, c’è anche un forte ricambio generazionale che la tiene viva. Non sono pessimista in tal senso e credo che siano benvenuti i tentativi di modernizzazione, purché fatti con rispetto e consapevolezza.

Chi secondo te riesce a fare questo, adesso, in Sardegna?

Sicuramente l’uso che fa Gavino Murgia dello scat con la voce bassa nel suo tenore ne è un esempio. Specie quando riesce a riproporlo sul palco con altri jazzisti. Lui però conosce bene quel linguaggio e pratica correntemente quel canto. Per questo non ha alcuna paura di confrontarsi con un cantante mongolo, un improvvisatore o con strutture musicali più vicine al pop. Riccardo Pittau può suonare con i grandi della storia del free jazz, confrontarsi con un orchestra balcanica e fare una gara di improvvisazione poetica campidanese a sa repentina. Riccardo ha portato avanti per diversi anni anche collaborazioni con Andrea Pisu, approdando a momenti psichedelici con le launeddas elettriche. Poi ci sono i predecessori come Antonello Salis e Riccardo Lay: non hanno bisogno di suonare musica sarda, riconosci la loro pronuncia dall’accento. Guardo con attenzione a come si svilupperà il percorso dell’organettista Pierpaolo Vacca, che ha introdotto l’effettistica della chitarra elettrica ad uno strumento che dalla fine dell’ottocento accompagna il ballo sardo.

Il tuo percorso musicale lascia intendere che non ci sia niente di lineare e che da te ci si possa aspettare qualsiasi cosa. Una musicista, tua fan, mi ha detto “se ascolti un disco o un concerto di Paolo credo sia già tutto lì, perché ancora non sa cosa farà dopo”. Quanto c’è di vero in questa affermazione?

(Ride, ndr) Assolutamente si! Nei momenti di massima esposizione mediatica, per quanto si parli sempre di musiche di nicchia, sento di avere la necessità di sentirmi vivo e cambiare ancora (ride). Cerco movimenti imprevisti, qualcosa che sfugga da quello che ci si aspetta da me. E questo succede spesso anche durante i concerti. Per me rappresentano un momento in cui scavare per cercare qualcosa di diverso. E spesso in quegli attimi si può trovare, anche se in fase embrionale, quello che magari farò cinque anni dopo. Per chi mi ascolta per la prima volta è un’esperienza a se. Chi invece ha seguito il mio percorso negli anni può carpire di più questa mia tendenza. Ogni live è unico, specie per me che improvviso e cerco continuamente idee istantanee comunque coerenti con quello che faccio.

Su disco credo sia ancora diverso perché impone un certo tempo di ascolto e di concentrazione. In modo particolare oggi, che si può fare zapping sulla musica, diventa sempre più complicato proporre dei concept da ascoltare dall’inizio alla fine.

A questo punto non posso fare a meno di chiederti cosa farai dopo.

Quest’anno potrebbero uscire altri due album: il live con Iosonouncane, frutto delle registrazioni del tour del 2018, e il live con Iva Bittova, estratto da tre concerti che abbiamo fatto insieme.

In prospettiva invece non vedo l’ora di mettermi a lavorare al terzo episodio di un trittico che ho iniziato con Nita l’angelo sul trapezio e Dove dormono gli autobus, due dischi realizzati grazie a tante collaborazioni con una grande varietà di strumenti. Sarà un album che farà riferimento ai grandi collettivi musicali, nel quale riverserò il mio amore per la musica sarda, ma con un approccio orchestrale e non da solista. Cercherò di coinvolgere tanti compagni di viaggio. Voglio lavorare con tanti musicisti diversi e sentire tanti suoni. Quando lavoro con la mia chitarra-orchestra faccio in modo che quello che registro sia eseguibile dal vivo e che suoni nell’album senza sovraincisioni, come suonerebbe live. In questo caso invece sarà qualcosa che non potrà mai essere replicato dal vivo, l’apoteosi del processo creativo in studio. Per me sarà un divertimento totale, senza limiti. Come un bambino in un parco giochi gigante in cui non è mai stato!

Grazie infinite Paolo.

Grazie a te e a Sa Scena Sarda.

Photo credits www.paoloangeli.com