Il racconto del concerto della band meneghina tenutosi nella cornice di Villa Siotto a Sarroch
“Bentornati a un concerto dei Ministri“. Sono le parole scandite da Davide “Divi” Autelitano a calare il sipario sul ritorno dei Ministri in Sardegna e che hanno il dolce retrogusto di qualcosa che sta finalmente riniziando. Per chi conosce i Ministri è facile intuire quanto possa aver pesato sui tre di Milano (poi diventati quattro con l’ingresso di Marco Ulcigrai) l’aver perso improvvisamente la dimensione live, essenza primordiale del progetto nato sotto il nome di “Ministro del tempo” e principale fonte di ispirazione per la penna di Dragogna. “Ci vuole sempre la gente che fa casino” come ricorda ironicamente Divi ai facinorosi che presidiano l’angolo bar durante l’esibizione.
Sarroch è la penultima tappa del tour per la band meneghina che è stata rock già prima che si urlasse al ritorno del genere con i Maneskin, e che dal rock non si è mai definitivamente congedata. Son passati sei anni dal battesimo sold-out sardo della band al Fabrik, incendiario come sempre. Erano gli anni in cui un concerto dei Ministri non poteva chiudersi senza l’immancabile stage Divi-ng.
Oggi a Villa Siotto siamo davanti a musicisti inevitabilmente diversi, più maturi, testimonianza servita su un piatto dalla totale assenza in scaletta di pezzi tratti da I Soldi Sono Finiti. Come diverse sono le condizioni ambientali, tra distanziamento, posti limitati, posti a sedere, e un pubblico ancora apparentemente cianotico dopo due anni di locali chiusi ed eventi annullati.
Un evento che, da tali premesse, non poteva che prendere spunto per iniziare con la profetica strofa del singolo che consacrò l’allor trio alla scena indie-rock, una presa di coscienza e rassegnazione nel realizzare, ora come allora, che “veramente viviamo in tempi bui“.
Lo show immaginato per il pubblico sardo è un giusto compromesso tra nuova generazione e quella che ai nostri piaceva definire “la vecchia guardia”: si cerca di accontentare entrambe le fazioni con Alberi, il Sole, Comunque e La Piazza in prima fascia, per scaldare il palco e acclimatare la platea. Il resto della scaletta lascia non più di una manciata di pezzi da spartire tra Cultura Generale (Cronometrare la polvere, Sabotaggi) e Fidatevi (Tienimi che ci Perdiamo, Mentre fa Giorno), quanto lasciato sul tavolo dalle quattro tracce di Cronaca Nera e Musica Leggera, ultima uscita discografica integralmente eseguita per comprensibili motivi promozionali. Diritto al Tetto in chiusura, assieme a Spingere e Una Palude, sono una magra consolazione per i fan anta, rimasti a secco di pezzi culto come Bevo, Noi Fuori, Mammut, Abituarsi alla Fine, ma comunque tirati su anche loro dalla sedia per saltare sul posto o avvicinarsi al palco a fine concerto. Un’immagine che i duecento presenti si porteranno ben volentieri a casa, di una serata iniziata con l’ansia da prestazione e finita con la sensazione di tutto ciò che era e sta tornando ad essere un concerto dal vivo. Ma anche l’immagine di una scena resiliente che vuole continuare a dare punti di riferimento dopo averli smarriti: in questo i Ministri sono un prodotto ancora spendibile, lontano dalla scia nostalgica tipica dell’indie italico, ancora perfettamente a loro agio nel giacchetto napoleonico, zuppo di sudore e passione (“Amiamo i nostri vestiti, nessuno potrà mai levarceli”).
Menzione di merito alla splendida cornice di Villa Siotto, ex-casa padronale e azienda agricola, lascito di un’epoca che non sembra essere mai esistita, lontana dai km di raffinerie che oggi avvolgono il paese.
Infine, nota a margine sull’esperienza del concerto su sedia, il primo per chi scrive, costretto con i restanti a poter dimenare le sole braccia, in una sorta di disabilità forzata: che possa non essere sprecata come occasione per vedere il mondo con occhi diversi, gli stessi di chi ne vive una condizione tutt’altro che temporanea, un impegno a non lamentarsi, un occasione per ripensare gli spazi e per approcciare la diversità con coscienza e senza pregiudizio.