Il live report della prima serata dell’European Jazz Expo
Di Simone La Croce, foto di Daniele Fadda
Torna una delle più importanti rassegne musicali isolane e lo fa in grande stile: il festival Jazz in Sardegna – European Jazz Expo. Dopo i tentativi di diffusione degli eventi degli ultimi anni, si accasa al Teatro Massimo – fatta eccezione per le parentesi diurne presso gli studi di Radio X. L’edizione attuale – la 37ª – aveva in cartellone qualcosa come 16 concerti in 5 giornate, con ospiti di rilevanza internazionale e tanti talenti più o meno emergenti, oltre a lezioni, seminari, presentazioni e mostre fotografiche.

La partenza è esplosiva. Herbie Hancock, punta di diamante della manifestazione, apre con il suo quintetto in un Teatro Massimo sold out nonostante i costi dei biglietti non proprio calmierati. La reazione del pubblico non sorprende: gli ascoltatori non si fanno certo pregare se uno dei pianisti del leggendario quintetto di Davis prima, e uno dei più importanti alfieri della fusion poi, si esibisce in una Cagliari purtroppo sempre più povera di grandi nomi.
Sul palco si presenta in formazione con diversi giovani talenti di esperienza e fama mondiale: al basso elettrico James Genus – membro fisso della Saturday Night Live Band –, Lionel Loueke alla chitarra, Justin Tyson degli R+R=NOW alla batteria, e la ventiquattrenne Elena Pinderhughes al flauto e alla voce. Il livello dei musicisti impressiona fin dalle prime battute, dove un abbrivio psych rumoristico conduce al funky, grande cuore pulsante dei pezzi per buona parte dell’esibizione.
Hancock non sovrasta, si prende la scena con garbo e rispetto, agevolato dagli altri musicisti e dalle loro grandi capacità, che non richiedono di sicuro compensazioni. Non una celebrazione del tastierista quindi, ma un’attenta orchestrazione volta a dare a tutti la possibilità di mostrare il proprio potenziale mantenendo un buon equilibrio in ogni brano, enorme merito che gli va riconosciuto.

I suoi primi passaggi al piano sono devastanti e mostra senza alcun timore tutti i sessant’anni di carriera che lo hanno visto coprotagonista di svariate rivoluzioni nel jazz. Il bop aleggia un po’ ovunque, di tanto in tanto fa capolino la bossanova, ma è il funky a dominare. Hankock ingaggia vivaci e appassionanti scontri con la sessione ritmica dimostrando di sapersi divertire ancora parecchio; i ritmi afro lo esaltano così come i funambolismi e i vocalizzi con cui puntualmente si inserisce Loueke.
Il concerto è un’esaltazione della fusion nelle sue infinite forme, in cui il pianista fa convergere tutte le sue esperienze pregresse, sia quelle hard del trio con Cobham e Cartes ma in particolare quelle squisitamente funky del periodo che lo ha reso celebre al grande pubblico. Se le prime sono ben celate dietro il tocco e la composizione, le seconde sono certamente più evidenti e dettano legge per tutto il concerto.
La sua fusion è world, prog, jazzy e anche reggae, senza però risultare una banale commistione di generi. Nonostante fatichi a uscire dai confini del funky e certe interessanti suggestioni siano solamente accennate per poi perdersi all’interno dei brani, la sua musica riesce comunque a farsi stile e a risultare, nel complesso, compatta e coerente.

Emergono anche sprazzi di nuova sperimentazione, con elettronica, loop station, scat e tanta effettistica sul cantato, ma sembrano lontani i fasti degli anni ottanta, fino ai quali Hancock ha osato da pioniere in territori per tanti ancora inesplorati. Durante il live si ha più volte la sensazione che la sua parabola creativa si sia comprensibilmente fermata lì e che ora si limiti a riproporne i temi salienti, seppure arricchiti e suonati con grandissima classe e maestria.
Se pochi musicisti a ottant’anni riescono a trovare le energie per esibirsi, sono ancora meno quelli che riescono a tenere il palco in questo modo per più di due ore. La chiusura con Rockit e il bis finale chiesto a gran voce dal pubblico sono l’epilogo doveroso e meritato di un concerto che regala sorrisi soddisfatti alle oltre settecento persone presenti.
