Miele Amaro – Guido Coraddu

Claudio LoiMusica, Recensioni

Per un pianista incidere un disco in perfetta solitudine non è un’operazione così scontata come potrebbe apparire e quando si decide di mollare tutto per partire senza nessun supporto umano significa che qualcosa è scattato e che inizia una nuova stagione del proprio divenire. Guido Coraddu ha deciso di tentare questa sfida dopo tanti anni di onorata carriera e di certezze consolidate: un quartetto su cui contare e viaggiare a occhi chiusi come Musica ex Machina e tante esperienze a cui attingere. Un salto nel vuoto senza paracadute e senza alibi che ha comunque delle coordinate ben precise e un mare magnum in cui trovare approdi e sponde sicure: è il grande oceano del jazz sardo e una storia che ormai si perde nel tempo e nella moltitudine di uomini, idee, desideri, musiche e fratture culturali che ci raccontano chi siamo e da dove veniamo. La storia del jazz sardo è in fondo la stessa storia del jazz, con le sue variazioni, le sue evoluzioni, gli approcci sempre in bilico tra mondi diversi, un aspro e duro confronto tra modi e mode della tradizione, continui rimandi al passato e, soprattutto, slanci in avanti e fughe solitarie. Una complessità che merita di essere raccontata e che ci può aiutare a superare solitudini e confini geografici e mentali e ci catapulta verso un universo mondo di cui siamo parte attiva e non semplice periferia di un impero che non ha nessuna legittimità a dichiararsi tale. 

Raccogliere storie, racimolare emozioni è in fondo lo stesso impulso che ha portato nel 1954 Salvatore Cambosu a pubblicare Miele Amaro nel tentativo di far capire quanto la Sardegna fosse qualcos’altro rispetto alle facili iconografie con cui la nostra isola veniva descritta e, spesso, banalizzata. Ed era una sorta di presa di coscienza non solo rivolta agli stranieri, ma indirizzata soprattutto agli stessi sardi, spesso compiaciuti di apparire come qualcosa di esotico e non semplici cittadini di un mondo da trattare con disinvolta nonchalance. Ma al di là di questa fascinosa empatia tra Cambosu e Coraddu, rimangono sostanziali differenze dovute allo scarto temporale, alla materia trattata e soprattutto al fatto che Coraddu non solo sceglie, ma rilegge a modo suo un patrimonio musicale che in questo frangente assume nuove forme e nuovi significati.

Il viaggio di Coraddu è quindi bipolare: è funzionale a raccontare una storia musicale complessa e mutevole, indefinita, straniante, di difficile catalogazione, ed è anche un viaggio all’interno del proprio essere, introspezione analitica e scavo archeologico nell’intimo della propria anima. Operazione non certo facile, così come non deve essere stato semplice decidere le stazioni di questo periplo e le rotte da seguire. Ma non dobbiamo cadere nell’errore di considerare le sue scelte come una sorta di classifica di merito o di graduatoria: credo che semplicemente si sia lasciato trasportare dalle correnti, dal vento del momento, dalla casualità che spesso regola le nostre vite: uno dei tanti viaggi possibili e un punto di vista di un momento ben determinato nella vita di un artista. E allora cerchiamo anche noi di ripercorrere questo tour emozionale, questa geografia dei sentimenti che in qualche modo ci riporta a una scena tanto ricca e variegata che spesso dimentichiamo di possedere. 

Si parte con Paolo Fresu il jazzista più celebrato e conosciuto a livello planetario con uno dei suoi brani più famosi: Another Road to Timbuktu che lo stesso artista di Berchidda ha più volte riscritto e reinterpretato, in trio con il P.A.F., con il Devil Quartet, con il Quintetto. Un brano che mette in mostra l’anima più funky di Fresu, la sua vocazione polisemica e persino un velato rimando alla tradizione bandistica tanto cara al trombettista di Berchidda. Si prosegue con Bebo Ferra, altro talento del jazz sardo che ha lasciato l’isola per affrontare il mestiere di musicista senza i limiti imposti dall’insularità. Il brano scelto è Toral che faceva parte di Mari Pintau un album del 2003 che non lasciava dubbi sull’attaccamento del chitarrista alla sua terra. La terza stazione è dedicata a Enzo Favata e alla sua visione di Sardegna con il brano Contami Unu Contu che apriva il fortunato album Voyage en Sardaigne del 1997, uno dei pilastri di quella corrente che per comodità abbiamo chiamato etno-jazz ma che era ed è qualcosa di molto più complesso e strutturato. La Strana Storia Di Teddy Luck arriva dal Massimo Ferra Trio e dall’album omonimo pubblicato nel 1996 con Massimo Tore e Roberto Pellegrini e me lo immagino come un omaggio a tutti quei musicisti che hanno deciso di restare in Sardegna e sfidare i limiti dello spazio e dei confini. Come ha scelto di fare anche Marino De Rosas e la sua chitarra: Cannonau è un brano che proviene dall’album Kiterras del 1989, un bell’esempio di tecnica chitarristica e sperimentazione transculturale. 

Launeddas è un altro pilastro del jazz sardo, un brano che occupava l’intero lato B dell’album Totem pubblicato dal Riccardo Lay Quartet nel 1988. Ancora una volta la Sardegna diventa la base per un viaggio che va oltre e si perde nelle paludi dell’avanguardia, del free, della sperimentazione più sincera e viscerale. Si continua con salti temporali e stilistici che ci riportano al nuovo secolo e precisamente al 2001 quando la pianista Silvia Corda pubblica l’album Impronte in compagnia di Adriano Orrù e Antonio Pisano. Il brano scelto è Dune in cui emerge la volontà dell’artista di sentirsi al passo della contemporaneità e il suo jazz si adagia su versanti di musica contemporanea in un beato connubio di cultura colta e cultura popolare. Non poteva mancare Marcello Melis un artista che ha scritto pagine memorabili di musica libera e tracciato percorsi che ancora devono essere capiti a pieno. Sa Bruscia arriva da Perdas De Fogu un album inciso a New York nel 1975 con alcuni dei migliori jazzisti del tempo. La Sardegna come non l’avevamo mai sentita, un urlo primordiale che ancora oggi è percepibile in tutta la sua potenza creativa. Una storia e una lezione che è stata ripresa nel miglior modo possibile anche da Gavino Murgia la cui musica ci proietta in un nuovo mondo dove tutto riesce a convivere in modo equo e solidale: il jazz, l’improvvisazione, la voce e gli elementi della natura, vento, pietra, mare e il pane che rimane l’elemento primario della nostra cultura. Pane Pintau è stato pubblicato nel 2009 e si trova nell’album Megalitico 5tet. Arriva invece nel 2016 Shardana di Zoe Pia e una nuova versione di Sardegna quando tutto sembrava già detto e scritto: Domus De Janas riprende un discorso che non si è mai interrotto e apre nuovi scenari e nuove prospettive di sviluppo. Che è quello che ha fatto Paolo Angeli durante tutto il suo percorso artistico: creare qualcosa di inaspettato e di insolito, di antico e moderno allo stesso tempo, qualcosa che nessuno aveva previsto e in continua evoluzione. Linee Di Fuga è un manifesto estetico che risale al lontano 1998 ma è roba che sfugge le datazioni e le gabbie culturali, senza tempo e fuori dal tempo. Doveroso anche l’omaggio a uno dei più inafferrabili e instabili artisti sardi: Antonello Salis, spirito libero e uomo fuori da ogni schema e persino difficile da pensare fuori dalla dimensione live. Hola arriva da una delle poche testimonianze discografiche di Salis, Pianosolo del 2006. Il viaggio termina con Pensamentos, unico brano a firma di Coraddu, e la sensazione di aver attraversato un mare di profonde emozioni con la voglia di riascoltare il disco e recuperare gli originali citati in questa antologia.