Gli effetti del Covid-19 sulla musica
Assieme al lievito di birra e ai software di conference call, la musica, durante questa dannata quarantena, è stata protagonista di un consumo smodato, quasi bulimico. Dai discutibili flash mob delle 18 che hanno animato tanti – troppi – balconi d’Italia, lasciando l’imbarazzo ai poveri dirimpettai, fino alle dirette quotidiane di svariati artisti, a rimpinguare il palinsesto quotidiano dell’isolamento, fatto di serie tv e bollettini della Protezione Civile.
Tra questi “eventi” si sono potuti annoverare gli appuntamenti estemporanei dei singoli, le iniziative come #musicachenonsiferma, che ha trovato supporto tra le pagine di Sa Scena Sarda, o la rassegna StayOn, organizzata dall’associazione Keep On, che ha coniugato lo scopo solidale attraverso la raccolta fondi per diverse strutture ospedaliere con le dirette quotidiane culminate con il “live” di Pasquetta.
Sebbene la parvenza sia stata quella di una forza e di una ottimistica vitalità, con il passare delle settimane, complice il perpetuo posticipo della fine del blocco, si sono mostrati i primi segni di cedimento accompagnati da sintomi di sconforto e rabbia. A dimostrazione che, come ogni altro fattore umano, la musica, e il mondo troppo spesso nascosto che le ruota attorno, non se la stanno passando troppo bene.
In ordine sparso, tra le conseguenze dell’emergenza Covid-19, si registrano annullamenti di concerti, festival e live set già previsti per i mesi di quarantena, completa incertezza sugli appuntamenti estivi e slittamento delle date di uscita di album e singoli. E le ipotesi degli esperti, che parlano di drive-in o di eventi a distanziamento sociale, non fanno di certo ben sperare.
Tutto ciò è inevitabilmente causa di gravi perdite economiche per i professionisti e tutti i lavoratori dello “showbiz”.
Per quanto riguarda il settore discografico, la FIMI (Federazione dell’industria musicale italiana) per il 2020 stima una riduzione degli introiti pari a 100 milioni di euro rispetto al 2019 e del 70% sulle entrate dai diritti [1]. Sul versante live, le notizie sono ancora meno incoraggianti: al termine del lockdown, che a oggi è previsto per i primi di maggio, si potranno contare circa 4.200 concerti saltati e perdite totali per oltre 63 milioni di euro, mentre Assomusica prevede circa 350 milioni in meno alla fine della stagione estiva. Seguiranno poi, tanti annullamenti futuri e occorrerà fare i conti con la verosimile mutazione delle abitudini sociali, compresa un’iniziale diffidenza dei consumatori rispetto a eventi con grande pubblico.
Uno dei primi a lanciare l’SOS è stato Tiziano Ferro sugli schermi di Che Tempo che Fa, causando parecchie polemiche, soprattutto da parte di chi, in maniera – sia permesso – miope identifica il mondo della musica con le luci e le paillettes interpretando quello che in realtà è un grido d’aiuto come un’offesa all’attuale dramma.
Nel silenzio dell’opinione pubblica generale, l’appello è stato però rilanciato da diversi artisti: tra i tanti Paolo Fresu, che in un lungo e accorato post prova a rendere giustizia a un mondo oggi senza voce e a “spiegare che la macchina dello spettacolo non è fatta solo di artisti e di prime donne ma anche di tecnici del suono, architetti delle luci, roadie, macchinisti, montatori, autisti, direttori di fotografia, scenografi, assistenti, uffici stampa. E poi scrittori, sceneggiatori, registi, coreografi, insegnanti, agenti, fotografi, studi di registrazione, discografici, grafici, stampatori, direttori di festival, club, associazioni, negozi, piattaforme digitali…
Agli appelli dei frontman dello spettacolo, si uniscono le forti richieste degli operatori del settore. Sindacati, associazioni di categoria, comitati spontanei, che provano a dare gambe e corpo alle proprie rivendicazioni. Le più semplici, ma allo stesso tempo le più disperate, dalle quali si può evincere l’errata percezione delle professionalità in gioco e la conseguente distanza delle istituzioni: trattamenti economici e previdenziali dignitosi, crediti d’imposta, snellimento delle pratiche burocratiche, pagamenti dei saldi già maturati e delle anticipazioni di legge.
Per far fronte alla richiesta di liquidità, la Regione Autonoma della Sardegna ha deciso di stanziare la somma di 7 milioni di Euro. Una cifra a prima vista sostanziosa, ma che, rendicontate le esigenze di tutto il comparto, potrebbe risultare solo un palliativo. Non sono sufficienti soluzioni tampone, ma occorrono interventi strutturali tali da garantire un’ipotesi realistica dei tempi in cui poter tornare a lavorare, con risorse concrete che consentano la ripresa delle attività in condizioni di sicurezza, per i lavoratori e per il pubblico [2].
Ne bel mezzo di un’emergenza che ha dell’epocale, dare una gradazione alle priorità è assolutamente umano, ma sarebbe diabolico pensare di ignorare anche la più flebile delle invocazioni. Soprattutto quando questa è portatrice di un disperato bisogno d’aiuto da parte di un settore che, sebbene da sempre operi letteralmente lontano dalle luci della ribalta, è anch’esso fatto di lavoratrici e lavoratori che oggi, preoccupati per il loro futuro, chiedono sicurezze.
[1] La Nuova Sardegna – 29.03.2020[2] Appello di F. Mannoia e L. Pausini