Tolti i primi della classe – Fresu, Angeli, Guzzetti, Dusty Kid, Iosonouncane – e messo da parte il rap da copertina, un pezzo infinitesimale dell’esosfera musicale sarda vanta provenienza dai sobborghi underground, spartito tra gruppi dal respiro internazionale quali Awake For Days, Confrontational e, soprattutto, i 1782. Trap? Elettropop? Niente di più lontano. Trattasi di Doom, pesantissimo e oscuro, di quelli che più sacri alle origini non si può.
La band di Ossi, con la sua comprovata formula di sound decrepito e artwork vintage-esoterico, sottolinea ancora una volta un concetto che era sfuggito ai meno attenti: il mondo tutto, non solo quello sotterraneo, ha ancora bisogno di ciondolare la testa a ritmo di Doom. Lo dicono 220k di streaming, raddoppiati in un anno rispetto alle riproduzioni sul tubo dell’omonimo album di esordio, oltre a fiotti di commenti anglofoni sui social. Nostalgiche anime Sabbathiane, può darsi, ma sempre fedeli e schierate tutto l’anno, come neanche le truppe del male a Mordor.
A questo giro, il panzer forgiato nelle fornaci della Electric Valley Records fa grattare il cambio sul fondo sconnesso di un entroterra solcato da basso (Francesco Pintore) e batteria (Gabriele Fancellu), monoliti dalla presenza arcigna fino all’ultimo rintocco del disco. La discesa verso le catacombe logudoresi procede inesorabile, alternando riff che eruttano improvvisamente da vecchi crateri inattivi (come in The chosen one, o nel reprise di Black Void), a momenti in cui si perde l’orientamento sopraffatti dalla chitarra ipnotica di Marco Nieddu (il giro di Priestess of death conta 1:40 di orologio).
Non si chiedano cambi di direzione al trio ossese, o che la voce di Nieddu esca dalle casse meno neniosa e satura di reverb: provereste, forse, a trivellare l’arida landa doom nella speranza di trovare qualcosa di diverso da polvere e ferraglie arrugginite?
Lo spartiacque è presto definito: un classicone che non lascerà delusi i palati avidi di fuzz masticati dagli Orange, per di più deliziati da un suono più artefatto e irrobustito rispetto agli albori (in questo, non poco ha giovato il sodalizio con gli ellenici Acid Mammoth, incrociati nelle Doom Session di fine 2020), con anche qualche interludio di Hammond (Nico Sechi) e synth (Alfredo Carboni). Mentre, per i meno avvezzi ai loop e al blando incedere di From The Graveyard, il consiglio è di seguire la striscia luminosa verso l’uscita di sicurezza più vicina.
È da riconoscere, la seconda fatica dei 1782 suona perfettamente in linea con gli esordi, seppur non si possa non encomiare una composizione che riesce a rendere più che ascoltabile un album che ruota, in loop, sugli stessi incastri ed espedienti.
Perchè, diciamocelo, i 1782 sono esattamente questo: un’onda che scava la roccia, un fenomeno geologico da osservare sul lungo raggio, assecondando il lustro che passa tra il colpo alla grancassa e quello al ride.
D’altronde, è questa una costante che è anche virtù nel “kingdoom” dei 1782, in cui un anno può dilatarsi per durarne fino a cento, come in un pianeta lontano anni luce dal nostro dove le streghe convivono, alla luce del giorno, con sciamani e altre oscure presenze.