Freakenstein – Freak Motel

Simone La CroceMusica, Recensioni

Il jazz è – per definizione ed essenza stessa – materia mutevole, fluida, che si nutre del cambiamento e nel cambiamento trova le risorse e le motivazioni per andare avanti e rinnovarsi. Dai tempi dei primi boppers, poi diventati hard e infine New thing, ci sono sempre stati personaggi che nel jazz hanno cercato di sovvertire le regole e diventare futuristi. The shape of Jazz to come, Somethin’Else, Tomorrow Is The Question!, Change Of The Century sono solo alcuni dei titoli che rimarcavano una forte propensione alla lungimiranza, al cambiamento e alla destabilizzazione che li avrebbe resi “contemporanei”. E oggi, a distanza di quasi settant’anni la questione resta campale. Il new jazz, meticcio e contaminato, che dall’Inghilterra ha conquistato orde di giovanissimi musicisti, ormai – e fortunatamente – tiene banco e testa anche ai più ostinati tradizionalisti. 

La Sardegna è da sempre terra di musicisti di spessore che ciclicamente emergono e mostrano la loro versione della contemporaneità del jazz, puntualmente riconosciuta e apprezzata ovunque. Da un po’ di tempo – complice probabilmente la recente pandemia, e una più atavica mancanza di spazi e possibilità in cui evolvere – si sono fatti più rari gli innovatori veri, chi riesce a uscire dal proprio seminato e chi prova a tracciare nuovi solchi, originali e insubordinate. I , insieme a uno sparuto, ma efficace, manipolo di arditi, possono serenamente annoverarsi tra questi. E il fatto che da qualche anno campeggiano nei cartelloni dei migliori festival jazz regionali, dovrebbe confermarlo. 

Dopo il buon esordio del 2018, tornano quest’anno con un EP, dal titolo che è già una dichiarazione programmatica. Freakenstein, quattro tracce per venti minuti tondi di musica, è infatti una creatura mostruosamente assemblata in studio di registrazione, con dovizia e attenzione, ma anche tanta, benedetta, imprudenza. Prendendo ulteriore distanza dalla fusion, ormai niente più che una lontana base di partenza, i quattro lavorano tanto sul risultato di insieme, prendendo dai solisti quello che basta alla riuscita dei pezzi.

Se il suono resta quello acido e sintetico del jazz elettrico, l’attitudine si muove su binari altri, portando la composizione verso lidi chicagoani (Makaya McCraven, Resavoir, Chicago Underground o robe di International Anthem), dove ancora si sente forte il lascito di band di area post-rock come Tortoise o Isotope 217. Le derive noise (come la coda hendrixiana di Magic Tucano), le tentazioni funky, gli stacchi di Carubi o l’approccio elettro di Cringed, sono solo alcuni dei tasselli assemblati in questo mosaico freak. Il livello tecnico dei quattro, grazie alla ormai loro lunga esperienza anche nei rispettivi progetti paralleli (SVM, Radio Luxembourg, Basstone Liegi), facilita gli slanci che danno carattere e personalità al disco. Le linee morbide della tromba di Matteo Sedda, i suoni del Rhodes Andrea Sanna e i pattern ritmici mutuati dall’elettronica e dal math-rock di Nicola Vacca e Andrea Parodo, si fondono naturalmente in una produzione attenta che compatta le quattro tracce di .

Ai Freak Motel va riconosciuto il merito – non da poco – di essere più progressisti che conservatori, di andare oltre i confini del pastone jazz isolano, tendendo le orecchie verso altre scuole, di sperimentare guardando più al futuro che al passato, affrancandosi dalla sicurezza dello standard per incidere composizioni sempre più impudenti e originali. Nell’afa umida che toglie il respiro e in cui siamo abituati a galleggiare, dischi come Freakenstein sono boccate di aria fresca.