Il musicista cagliaritano si racconta ai microfoni di Cagliari Blues Radio Station per la rubrica Talkin’ Blues
Franco Fois, classe 1950, vive e suona a Cagliari, musicista e insegnante di lunga esperienza, si racconta lungo un percorso dove il blues è sempre stato presente.
Quando inizia il tuo viaggio nella musica?
I primi ricordi sono legati all’infanzia quando ho ricevuto, per Natale, una piccola fisarmonica e quando, andando a trovare mia zia a Sant’Andrea Frius, cercavo di suonare un armonium dismesso dalla parrocchia. Soprattutto ricordo la mia meraviglia nel sentire un mio cugino suonare “Oh Susanna” con una microscopica armonica a bocca. A partire dai 13-14 anni ho suonato la chitarra e il basso elettrico, l’armonica e mi sono cimentato come vocalist nell’ambito classico, popolare, pop, jazz, blues fino all’improvvisazione contemporanea. Sono approdato quindi alla scoperta della musica antica e degli strumenti a pizzico come il liuto, la tiorba, la chitarra rinascimentale e barocca. L’esperienza musicale mi ha anche impegnato come danzatore, compositore, didatta e musicologo, nella produzione di diversi lavori tra i quali il CD “Chiare fresche e dolci acque“, inciso insieme alla cantante Simonetta Soro, il saggio intitolato “Dominico Bianchini ditto Rossetto – Un friulano musicista e mosaicista nella Venezia del Cinquecento” e la ricostruzione dei brani per ensemble liutistico contenuti nel “Thysius Lute Book” , Brilliant Classic.
Quando è scattata la scintilla per il Blues?
Intorno ai 18 anni mi sono unito al “Gruppo 70” che poi cambiò il nome in “Fire”. Giravamo intorno alla sala prove di Delio Nicoletti (quella con i VOX in via Iglesias a Cagliari) e suonavamo John Mayall, Cream e Led Zeppelin, infischiandocene abbastanza delle piazze e delle mode del tempo. I Fire erano Delio Nicoletti alla batteria, Ciccio Solinas alla chitarra e alla voce, Eugenio Orani alla voce e il sottoscritto al basso con interventi di voce e armonica. Questo più o meno tra il 1969 e il 1971. Il nostro era un blues di importazione e di parentela rock, recuperato attraverso i pochi dischi che giravano all’epoca. Quando ne entravamo in possesso li registravamo sulle bobine del ‘Gelosino‘ (ne ho ancora uno scatolone pieno) e li ascoltavamo sino alla consunzione dei nastri. La scintilla aveva acceso la fiamma di questa musica e delle sue infinite combinazioni dei tre accordi e dei ritmi sincopati.
Successivamente la formazione venne rimaneggiata e si trasformò’ in “Capitolo Successivo” con Tomaso Rasenti alle tastiere, Ninny Sorrentino, Marco Mura alla chitarra e alla voce Giorgio Barbarossa. Sempre più ispirata dalle band capaci di rivisitare il blues come gli Yardbirds, i Doors, i Led Zeppelin, i Rolling Stones e tutti quelli che hanno realmente contribuito all’ondata di rimbalzo del blues dandogli una nuova vita.
Successivamente hai insegnato musica nella scuola pubblica. Sei mai riuscito a inserire il blues nei programmi didattici?
Ho sempre avuto molta libertà nelle scelte didattiche, sia quando insegnavo chitarra sia quando mi hanno affidato, in una delle nuove sperimentazioni, una materia dal nome criptico e altisonante: “Linguaggi non verbali e multimediali” che nel mio caso si è tradotto in “Musica”. In entrambi i casi non esistevano dei programmi predefiniti e condizionanti, per cui si poteva veramente sperimentare. Nel mio tentativo di far apprezzare la musica senza preclusioni, il blues è rientrato spesso in diverse prospettive: uso dei 3 accordi base in diverse salse ritmiche, improvvisazione su schema semplice, attenzione ai contesti storici e sociali. Nell’anno del pensionamento, il 2011, il saggio-concerto finale delle mie classi è stato totalmente impostato sulla musica dei Rolling Stones in primis il loro blues.
On top of the world _ RAI 1976
Sei riuscito a far scattare la scintilla in qualche studente?
In quasi 40 anni di insegnamento ho incontrato ogni tipo di anima. Tra di loro ci sono anche alcuni nomi noti al pubblico, non solo locale, come Andrea Ferrari (voce e leader del gruppo Carovana Folk), Simona Arrai (splendida voce e grande musicalità), Domenico Cocco (chitarra e voce dei Mojo Workers e altri progetti), Marco Farris (attualmente in Inghilterra dove conferma uno dei migliori armonicisti sulla scena). Tutti avevano le loro qualità musicali da prima che io li incontrassi e lo stimolo all’espressione musicale è stato reciproco e bidirezionale. Ho cercato di spingere i miei allievi a credere in se stessi e lasciar fluire quel che avevano dentro, e loro hanno spinto me a fare altrettanto.
Oggi sei coinvolto in qualche progetto?
Suono nei The Mojo Workers nella versione ‘quartetto’, che vede come nucleo principale due chitarristi e cultori del genere, come Domenico Cocco e Marco Noce, e Simone Murru all’armonica. Il blues della band interpreta autori e canzoni dagli anni venti sino ai giorni nostri, cercando di rilanciare il messaggio musicale, sociale e umano.
Tra i vari progetti, quelli su cui sono più concentrato riguardano la mia attività di liutista, sia come solista che come componente di diverse formazioni per lo più collegate all’attività della “Società del Liuto”.
Hai mai composto musica o canzoni? Ci parli del processo creativo che sta alla base delle tua musica?
Compongo dal primo momento in cui ho potuto produrre dei suoni. Giocare con uno strumento, ma anche con la voce, mi ha sempre portato su due strade: capire cosa fanno gli altri e capire cosa mi piacerebbe fare. Nel blues il mio processo creativo prende sempre l’avvio da uno stato d’animo che si trasforma in parole inserite in un qualche giro armonico, ma è sempre abbondantemente innaffiato da momenti di improvvisazione.
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Riesci a individuare un legame culturale tra la Sardegna e il Blues?
I temi ‘esistenziali’ dei testi del blues originale sono comuni all’uomo di ogni dove: la componente amorosa, lieta o sofferente, quella del quotidiano, quella della sottomissione sono comuni anche alla poesia sarda. Un certo disincanto nell’affrontare il racconto della vita e un gusto per il gioco della parola lo trovo anche nei poeti improvvisatori sardi, che lo usano per portare l’invenzione poetica su semplici schemi musicali. La risultante è ben diversa all’ascolto, ma si tratta pur sempre di manipolare, in modalità diverse, schemi popolari, condivisi e radicati nella tradizione orale. Il musicista sardo oggi può scegliere tra le numerose suggestioni che la globalizzazione gli offre. Chi sceglie il blues lo fa evidentemente per la vitalità che questo continua a manifestare nell’atto dell’esecuzione. Questa viene perfettamente colta anche da chi lo ascolta e lo vive come musica non imbalsamata nelle sue semplici strutture, ma dinamica e ricreata a ogni volta.
Sediamoci dalla parte del pubblico: quali sono i concerti migliori a cui hai assistito?
Tutto il Festival di Reading del 1973 con una caterva di stelle di prima grandezza. Come in tutti i festival di musica del periodo, da Woodstock in poi, si dormiva in tenda, non ci fu risparmiata un po’ di pioggia, ci ritrovammo in mezzo a un mare di musica e scoprimmo così tutte le novità che in Sardegna non arrivavano ancora né con i dischi né attraverso le radio.
Un altro concerto è quello di Bob Dylan al Molo Ichnusa di Cagliari nel 2000. Reinterpretò tutti i suoi brani più famosi sino a renderli a tratti irriconoscibili. A fine concerto mi stupì vederlo ritornare sul palco per fotografare il pubblico numeroso e caloroso, mettendo in discussione per una volta la sua storica riservatezza.
C’è un disco di blues che ha lasciato il segno tra i tuoi ascolti?
Si, un 33 giri antologico di Sonny Terry & Brownie McGhee pubblicato in Italia negli anni ’70 che ho ascoltato un’infinità di volte e anche oggi, dopo tanto che non lo ascolto, son sicuro che lo canterei nota per nota dall’inizio alla fine.
Qual è il musicista sardo che ti senti di raccomandare?
Il bluesman sardo che più mi colpisce è Francesco Piu, per la piena padronanza e personalizzazione del linguaggio del blues.
Che libro dovrei leggere sul genere?
Attualmente non seguo più il cartaceo, ma c’è un libro letto in gioventù, edito nel ‘63, che mi sento ancora di consigliare a chiunque voglia comprendere il radicamento di certa musica nella cultura nera: LeRoi Jones “Il popolo del blues”.
Un consiglio per i giovani musicisti?
Ascoltare, ascoltare, ascoltare e poi entrare nel gioco con i propri strumenti, e affinare il discorso suonando. Oggi è più facile grazie alle tecnologie digitali, ma resta sempre meglio farlo assieme ad altri compagni di entusiasmo con cui mettersi alla prova.
Come immagini il blues nei prossimi tempi?
Come nei precedenti: chi lo incontrerà ne rimarrà affascinato e lo porterà con sé per il resto del suo percorso musicale. Non penso ad una evoluzione del linguaggio, ma penso a una differenziazione sfaccettata di livelli diversi, affidati come sempre alle personalità degli esecutori.
Quale film consigli?
Più che uno solo consiglio la serie prodotta da Martin Scorsese: “The Blues – a musical journey”. Ogni film è affidato a un diverso regista e vengono presentate, sotto forma di viaggio-documentario, prospettive differenti sulle diverse anime del fenomeno e dei suoi protagonisti.
Grazie a Franco Fois per essere stato con noi e aver condiviso le sue strade del blues. Keepin’ the Blues Alive!
Voglio salutare i lettori, che immagino di età diverse, ringraziandoli per aver ascoltato anche la mia voce e invitandoli a moltiplicare la capacità di ascolto, differenziando i linguaggi seguiti, per coglierne le sfumature e godere così più completamente la bellezza della comunicazione musicale.