Recensione di Daniele Mei
Per qualsiasi musicista confrontarsi con Robert Johnson non è certo semplice. È come prendere un diamante grezzo e levigarlo. Le sue canzoni, dopo un secolo, sono ancora qui a raccontarci la sofferenza e a tenerci legati a doppio filo all’essenza dello spirito dell’uomo. I suoi brani, così potenti, si ascolteranno finchè esisterà il genere umano, e forse anche dopo.
Francesco Piu lo sa e ha voluto portare l’arte del bluesman di Hazlehurst a fare un giro nella contemporaneità. Il risultato è un rock folk contaminato da tanti colori, dove il blues è solo uno spunto. In questo quadro Johnson è uno spettatore soddisfatto che osserva con attenzione i musicisti, seduti a cerchio davanti a un fuoco in un arenile affacciato sul Mediterraneo, con l’Africa di là dell’orizzonte.
Piu canta e usa con trasporto i suoi giocattoli – dobro, acustica, elettrica – mentre il resto della ciurma di suonatori lo segue. Ci sono i suoni legati alla tradizione sarda e a quella africana, l’elettronica e addirittura un dj che armeggia con i piatti. L’armonia tra tutti gli elementi – strumenti e musicisti – è ben curata e rende Crossing un lavoro coeso nonostante la tanta carne al fuoco. Diversi e importanti, infatti, sono gli ospiti che si affacciano in questo circolo di sognatori: Antonello Salis, Gavino Murgia, Marco Pandolfi, Gino Marielli dei Tazenda, Bruno Piccinnu e Frantziscu Pilu dei Cordas et Cannas, ognuno con il proprio contributo musicale.
Con Crossing, dopo Ma-Moo-Tones e Peace & Groove, l’osilese si conferma uno degli artisti di punta della scena blues italiana.
Questa recensione voglio dedicarla al compianto amico Angelo Piras, Sit tibi terra levis.