Nothing Really Important – Fireworks Banquet

Marco CherchiMusica, Recensioni

Dischi come quello di esordio degli aleresi passano di sovente sottotraccia, colpa forse della più comune tra le leggi di mercato che vede l’offerta di genere superare di gran lunga una domanda sempre meno chiaramente identificata, anziché viceversa. Tanto che il Nothing really important in copertina dell’album della band dell’alta Marmilla arriva quasi come una provocazione, sagacemente in contrasto con quell’urgenza di esprimersi in musica che spinse Andrea Deidda, oggi chitarra e voce del progetto, ad acquistare uno Zoom H4N e registrare in casa voce, chitarra e batteria. Un bozzetto di un progetto già chiaro e definito negli intenti e in cui troveranno spazio gli zii Tommaso (basso) e Alessandro (batteria) e, poco più tardi,  il cugino Samuele (chitarra). Insomma, se eravate  diventati diffidenti dopo la fake news sull’affinità parentale diffusa a inizio carriera da Jack e Meg White, con i Fireworks recupererete con gli interessi.

Non che la proposta rock-indie fatta di chitarrini su canale pulito non vada più per la maggiore, anzi. Ma paga, perlopiù, lo scotto di voler entrare sotto pelle al primo ascolto, arrivando, sì, originale, ma con la bussola sempre orientata tra i dintorni di Sheffield, Brighton o New York. Il risultato, per assurdo, è che  band in fasce cresciute con romanzi di formazione come “Is This iT” e “Whatever People Say I am, That’s what I’m Not”, possano trovare paradossalmente meno elaborata la scrittura di un concept progressive, che non il cimentarsi su una decina di pezzi di indie/brit-rock puro e diretto. Occorre, quindi, aggiungere dell’altro, altri ingredienti per fare di ciò che si ha in casa un piatto gourmet per palati fini (ma non troppo) che in ristorante ci sono già stati. Non a caso la credibilità dei Fireworks Banquet si gioca tutta, e coscientemente, sulla voce amica e verbosa di Andrea, e su arrangiamenti di chitarre in fuga dall’impatto immediato, a rinforzo di una costruzione in cui è evidente come ci si sia già portati avanti sul pezzo, facendo i compiti  a casa e sbobinando le vecchie demo.

Il pregio dei quattro (anche difetto in potenza, ma glielo si conceda alla prima) è di non avere mai la tentazione di aggiungere nulla di più di ciò che serve, lo stretto necessario, consci che il viaggio è appena iniziato e non sarebbe avveduto caricarsi di peso eccessivo. È proprio questo l’elemento di risalto in : la sensazione di come suoni tutto caldo e familiare, come la prosecuzione di un’ordinata discografia che ci sembra già di conoscere, complici soprattutto alcuni pezzi in apertura che rimangono in testa senza eccessivi sforzi. Viene tutto molto naturale insomma, e soprattutto con la stessa semplicità arriva anche all’ascolto, piacevole e leggero: quasi si vorrebbe tornare subito sulle strofe di Be Like You per doppiarle in un inglese rigorosamente maccheronico.

Il terreno è fertile per limare i dettagli e, a chi guarda all’inglese come il peccato originale delle neo-band isolane, ricordiamo che ci sono stati esempi come i Love-Boat che qualche locale lo hanno riempito.

La chiusura di questo 2021 alza il sipario sullo spettacolo pirotecnico in scena ad Ales, di fronte al quale si apre subito la prova del fuoco: promuoversi efficacemente ed essere sempre presenti, creare hype con i nuovi singoli e con le attese tra EP e LP, evitando l’effetto “montagna russa” tra hit riuscite e pezzi più anonimi.

Il progetto Fireworks Banquet ha, in sintesi, tutte le carte in regola per lasciare un segno: l’invito non può che essere di proseguire sulla strada tracciata, ma di non accontentarsi, di provare a osare e prendere direzioni anche diverse in futuro. E osare è, ad esempio, inserire un pezzo di 7.41 minuti come prima traccia di un album che aveva tredici brani, da cui il titolo, ed era preceduto dal disco che fece conoscere al mondo Song 2. Capisci a me.