Every Day Is Saturday Night – Barmudas

Claudio LoiMusica, Recensioni

Nel 2018 si sono presentati al mondo con Rock the un 45 giri di puro rock’n’roll, essenziale diretto, col tiro giusto. Poi ecco finalmente il tanto atteso album pubblicato da Area Pirata nella sola versione vinilica, pieno di colori, glamour e vigile attesa. Un traguardo di non poco conto visto i tempi che corrono o meglio che rallentano in modo preoccupante. La copertina dell’album chiarisce subito che trattasi di puro glam al 100%, una dichiarazione d’intenti che dovrebbe chiarire le cose ma che in qualche modo intorbida le acque. 

Il termine glam è tanto scivoloso quanto ubiquo, instabile e pieno di insidie. È un mondo composito e variegato che passa dalla cialtroneria tutta british di personaggi come il famigerato Gary Glitter (di cui ancora rimpiango le monete lasciate nei juke box in momenti strani della mia carriera di musical navigator) o altre figure di dubbia onestà come Slade, Sweet e quei maledetti Kiss per i quali ho una conclamata intolleranza. Ma se si supera questa cortina di leggera disfonia appare qualcosa che illumina e lascia il segno. Mi riferisco invero a un animale raro e prezioso come Marc Bolan e i suoi T-Rex e a tutto quello che ha lasciato come eredità. Senza questo riccioluto folletto inglese la storia del rock avrebbe avuto altri esiti e artisti come David Bowie e Lou Reed forse (dico forse) non avrebbero avuto la giusta spinta per fare quello che hanno fatto. Il glam diventa nelle mani di questi artisti la giusta mistura di sfrontata leggerezza, di richiamo alle origine del rock e la creazione di un universo sempre più ambiguo, poliforme e mutevole, fastidioso nel suo creare fratture culturali e rivoluzionario più di una canzone di Phil Ochs (che salutiamo con affetto). 

Credo che sia questo il contesto nel quale inserire i Barmudas e il loro debutto discografico: rock’n’roll come spinta verso una dialettica della differenza o meglio una visione del mondo aperta e mai ortodossa. Rock come liberazione personale e come antidoto per affrontare un mondo piatto e scontato e riscrivere le coordinate del proprio essere: una leggera ma profonda riflessione su quanto sia necessario elevarsi e guardare il mondo da altre prospettive. Barmudas è materia prima che non ha bisogno di ulteriori modifiche, è lo stato grezzo del rock, quello che arriva da strumenti di poco valore, amplificatori vivi per miracolo e tanto sudore, rumore, urla e glamour a volontà. 

Loro stanno a Firenze ma sono cittadini di un nuovo mondo, vivono la contemporaneità con assoluta naïveté e non hanno paura di dichiararsi figli illegittimi di padre punk e madre glamour concepiti dopo un concerto dei primi Stones che echeggiano sempre dietro i loro riff. Sono in quattro ma sembrano moltitudini. Smendock (al secolo Umberto Manduchi cagliaritano spurio ma non pentito) alla voce; KingDom alla chitarra; Nacker al basso e Zak alla batteria. Un quadretto semplice, quasi una famigliola in gita sulle rive dell’Arno a sciacquare i panni del rock e la presenza gradita di altri amici di famiglia, tra cui il sommo poeta Tonino Carotone che apre il disco con i suoi versi immortali. Se la vita è un’eterna commedia (non sempre divina) e ogni giorno è sabato notte questa potrà essere la giusta colonna sonora.