Il live report dell’EJE nelle serate dal 31 Ottobre al 2 Novembre
Di Simone La Croce, foto di Daniele Fadda
Il festival entra nel suo vivo giovedì 31, con le consuete tre giornate dense di esibizioni per oltre dieci ore di musica live al Teatro Massimo di Cagliari.
31 Ottobre
L’apertura spetta all’ottetto del Maestro Franco D’Andrea, composto da Mauro Ottolini al trombone, Andrea Ayassot al sax, Daniele d’Agaro al clarinetto, Enrico Terragnoli alla chitarra, Aldo Mella al contrabbasso, Zeno de Rossi alla batteria e a sorpresa il DJ Rocca, alias Luca Roccatagliati, alla consolle. Al netto di quest’ultima presenza aliena, l’ensemble si affaccia con una formazione abbastanza canonica ma sin dalle prime battute si capisce che l’approccio non lo è altrettanto: un crossover molto moderno e ritmato, che avvicenda e fonde spunti di classica e sperimentazione di forte impronta black, sezioni lineari ad altre estremamente frammentate. I brani somigliano a piccole colonne sonore per film dell’assurdo dove colpi di scena, cadute comiche, inseguimenti e personaggi improbabili si combinano in maniera solo apparentemente casuale. Racconti musicali con fughe accennate e interrotte, tanto rock tra intermittenze di blues e hip hop, in un’attitudine ludica che sembra richiamare Mingus, con Ottolini che gioca a fare il Knepper della situazione.
Il concerto termina, i musicisti escono ed entra Han Bennink, settantasettenne danese e autentica leggenda vivente della batteria. Con nonchalance, armato solo di spazzole e rullante, sfodera subito un gran swing. Pochi minuti e come un ragazzino indisponente si siede a gambe aperte sul palco e con le bacchette percuote il pavimento in un’apoteosi del free, dove libertà e audacia svelano il suo istinto innato a tirar fuori cadenze da qualunque cosa gli passi per le mani, con l’approccio giocoso di chi per anni ha sputato sudore e respirato disciplina. Torna l’ottetto al completo e con esso quell’atmosfera di divertimento e sfacciataggine, nella quale Bennink non può che sguazzare beato.
Con sonaglio alla caviglia e fare da bluesman entra Adam Ben Ezra, talentuoso contrabbassista israeliano che subito dà dimostrazione di un senso del ritmo fuori dal comune. Pizzica le corde e contemporaneamente batte il tempo con il piede, mentre con la mano libera percuote la cassa, disegnando fraseggi degni dei migliori percussionisti. Passa dal piano allo scat e chiama in causa anche l’elettronica: con basi, campionatori e synth stende strati su strati di suoni e ritmi, a tratti eccessivi. Suona effettato con piglio funky, malcelando un evidente background fatto di rock anni 90, nel quale riesce a mescolare Africa, India e Caraibi con melodie mediorientali, gitane e andaluse, concedendosi qualche deviazione pop. Talento da vendere che ammalia un pubblico incredulo di fronte all’evidenza che un uomo solo possa fare tutta quella musica.
Chiude la serata il Blast Quartet di Gavino Murgia, coadiuvato dal trombone di Mauro Ottolini, Aldo Vigorito al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria. Il sassofonista nuorese e il trombonista sono grandi amici di mangiate e bevute, cosa che si palesa piacevolmente dall’attacco. La sinergia e l’affiatamento tra i due emerge nel suono e nell’esecuzione, come sempre guascona e deflagrante. Murgia salta come suo solito dal sax tenore all’alto, mentre Ottolini, maestro di sordina e trasformismo, suona le conchiglie come se fossero un trombone e viceversa. Mingus se la riderebbe soddisfatto nel sentirsi chiamato in causa così di frequente.
1 Novembre
Si riparte ancora con Murgia ma in un progetto del tutto differente che lo vede collaborare con il percussionista statunitense Hamid Drake e il compositore e polistrumentista marocchino Majid Bekkas, maestro di musica gnawa. Sin dai primi scambi tra il sax e l’oud di Bekkas, si respira Mediterraneo. Un dialogo di continui richiami tra oriente e occidente, i cui interlocutori – liberi e senza preconcetti – attraversano fluidamente i propri confini. In austero rispetto si fermano ad ascoltare, aspettano che l’altro proponga le sue linee melodiche per farle proprie – ma con deferenza. Per potersi poi concedere la libertà di rielaborarle con profondità, tempi e linguaggi altri. La loro spontanea comunione di intenti si manifesta nella musica come un’ovvietà, qualcosa che non potrebbe essere altrimenti. Majid passa dall’oud al guembri, una sorta di basso con cassa in pelle di capra e corde di budello; il terzetto si sposta invece dal blues al jazz, attraversando mari e deserti, tra musiche maghrebine, berbere e sarde, ogni musicista secondo la propria necessità espressiva. Il jazz si conferma ancora una volta, come se ci fosse il bisogno di ribadirlo con forza, terreno fertile per coesistenze possibili.
Lo dimostra anche il giovane quartetto tutto israeliano del sassofonista Eli Digibiri, eclettica formazione di impronta hard e free con tentazioni pop e spunti di classica. Il livello tecnico sul palco è elevatissimo, l’età e la spregiudicatezza dei musicisti li porta a soluzioni fresche, sempre pulite ed eleganti anche nei momenti di maggiore slancio. Su tutti spicca il giovanissimo pianista Tom Oren – classe ‘84 – che incanta letteralmente il pubblico con una sensibilità e una tecnica formidabili. Ma a conquistare definitivamente l’ascolto è la stretta alternanza tra fraseggi di alto lirismo e esplosioni di violenza sonora, passaggi di stile sorprendenti e repentini che strappano “Yeah” e applausi a ogni tornata.
Chiude il violinista uruguaiano Federico Nathan, stella della seconda giornata – tra le sue collaborazioni musicisti del calibro di Snarky Puppy, Gregory Porter e Quincy Jones. Se il violino è uno strumento inusuale nel jazz, il suo stile nel suonarlo lo è ancora di più. Con cavalcate dal gusto prog e hard rock, riesce a mettere insieme Bach e tango, rivisto, smontato e riassemblato da chi dice di esserci cresciuto ma di non aver mai imparato a ballarlo. L’esibizione vede lunghi momenti di serafica armonia, ben sostenuti dal piano di Baptiste Bailly e abilmente sfruttati dal violinista, e scalate serratissime, evidentemente derivate da quelli che egli stesso cita tra gli ascolti che ne hanno condizionato la formazione, Frank Zappa e Nirvana tra tutti. Il pubblico non sembra però apprezzare tanta eterodossia e alla spicciolata inizia a lasciare la sala prima della fine del concerto.
2 Novembre
Un orientamento al jazz più standard caratterizza la serata di chiusura del festival. L’apertura è lasciata a una formazione – Growin’ Jazz – costituita da giovani talenti emergenti, molti nostrani, e impreziosita dalla presenza di Gianrico Manca alla batteria, affermato compositore e selezionatore dei musicisti. Matteo Piras al contrabbasso, Vittorio Esposito al piano, Simone Faedda alla chitarra, Cesare Mecca alla tromba e Gabriel Marciano al sax alto si cimentano in vari standard, passando agevolmente dal bebop al cool, con un taglio smooth che indora i vari – doverosi – sfoggi di accademia, lasciti di un conservatorio ancora molto presente nei background dei giovanissimi strumentisti. La band si è esibita anche nelle giornate precedenti all’EXMA, portando tributi a grandi nomi come Fats Navarro, Bud Powell e Waine Shorter.
L’Italian Jazz Quartet vede invece un grande nome del percussionismo, quel Gianni Cazzola lanciato più di sessant’anni fa da Franco Cerri, che nel tempo si è distinto al fianco di mostri sacri come Gerry Mulligan, Chet Baker, Dexter Gordon, Lee Konitz, Billie Holiday e Sarah Vaughan – solo per citarne alcuni. Tocco sapiente, preciso e delicato si inserisce con discrezione in composizioni che spaziano dalla bossanova alle ballate cool. Il quartetto mostra una sensibilità e un’intesa ineccepibili, specie nelle tante progressioni, in crescendo e in diminuendo, che strappano applausi su applausi, tanto da rendere frammentaria l’esecuzione. I musicisti che lo accompagnano – su tutti il vibrafonista Jordan Corda – rendono onore al maestro, specie sul finale, nel momento dell’omaggio a Bud Powell, suo grande ispiratore.
Chiude il terzetto di star internazionali in cartellone. Su tutte Steve Gadd, uno dei più influenti e quotati batteristi contemporanei (Eric Clapton, Paul McCartney, Paul Simon, Chick Corea, Michel Petrucciani), che insieme all’hammondista Dan Hemmer, ha accompagnato il progetto del pluripremiato sassofonista danese Michael Blicher. La direzione del concerto è subito abbastanza chiara: accompagnamenti dritti e diligenti, tanta pulizia e brani strutturati per esaltare la sala, tra suggestioni caraibiche e tanta musica black – soprattutto gospel e blues. Il tutto cucito dalla sofisticatezza di Gadd, sempre presente e impeccabile, mai scontato, che si prende la scena facendo sfoggio di tutta la sua tecnica nell’unico vero solo che si concede. A strappare più applausi è però il coinvolgente Blicher. Suona esattamente quello che l’ascoltatore medio si aspetta dallo strumento: eleganti linee melodiche e armonie soul ma non troppo moody. Il suono morbido e l’esecuzione inappuntabile mettono in risalto tutte le sue doti tecniche e le sue capacità di scrittura, con brani di impatto e, al contempo, di facile ascolto anche per lo spettatore poco avvezzo a certi linguaggi del jazz. I due Grammy vinti e la standing ovation finale confermano il suo talento ma soprattutto rendono evidente quanto possa essere efficace, in termini di feedback, trasporre nel jazz logiche di appeal proprie di altri orizzonti musicali, che spesso si immaginano lontani mentre invece sono più vicini e trasversali di quanto si possa credere.