In diverse realtà della Sardegna, la domenica successiva al primo plenilunio primaverile, i fucili contro il cielo salutano il risorto e la vergine che si incontrano. Bultei, paese della cantante Elisa Carta, è uno di questi. E non è un caso che, in omaggio al centro costerino, il suo album d’esordio – pubblicato dalla Maremmano Records – si intitoli “S’incontru”.
Ma il riferimento alla Pasqua e ai «fusiles contra a chelu» è solo un tassello del puzzle; questo disco, infatti, moltiplica concettualmente il termine stesso di incontro, indirizzandolo in più direzioni, con dieci tracce che rappresentano diversi congiungimenti (o ponti, come affermato dall’artista): quello tra i popoli e le loro musiche; quello tra gli stili ben mescolati dalla squadra di musicisti che accompagnano la nostra in questo viaggio; quello tra la lingua sarda e il mondo intero.
Il pianoforte di Simone Sassu che annuncia la title track, subito raggiunto da un ticchettio di quelli che stavano nelle sveglie posate sui caminetti della nostra memoria, fa da base a un incontro di bocche («ucca tua in sa mia») e di fiori («non rosa so iscrareu») sospirato dalla voce calda di Elisa. L’incedere latino prosegue per tutto il pezzo fino alla chiusura ricamata dal basso di Fabrizio Leoni mantenendo fisso l’ascoltatore per tutto il racconto.
Dalla Costera (il Goceano tributato anche a fine album) alla frontera tra Usa e Messico è un attimo. Il secondo brano è infatti una cover (tradotta da Michele Pio Ledda) di “Con toda palabra” della bonànima di Lhasa de Sela tratta da “The living road” del 2003. “Cun donzi peraula” mostra una volta di più la potenza espressiva della lingua sarda anche nelle traduzioni (persino in quelle apparentemente facili dal castigliano).
Cover anche la traccia successiva, “Melagranada ruja”, con versi (che i lettori di Cicitu Masala conosceranno a menadito) già messi in musica dall’indimenticata Marisa Sannia.
“Maja”, parola con pronuncia parossitona e dal magico significato, è invece il singolo che accompagna questo esordio; molto atmosferico fino alla fine brucia senza ardere («brusiat e non faghet frama»).
Nel mezzo del cammin dell’album le radici si tingono di blues con, appunto, “Mesu caminu”, pezzo di ottima fattura con in evidenza le inconfondibili chitarre di Francesco Piu. Un brano per i seminatori del cielo e per i camminatori dell’anima.
Il ritmo di “Fue”, con le sue melodie pompate dal mantice della fisarmonica, è invece un viaggio sopra le comunità della nostra terra; presentata come una «canzone drone» entra «in s’ànima de onzi idda» per ricordarci quello che ora non siamo più.
Il concetto di fuga («Fuende dae custas dies…», «fuende dae s’umbra tua…») è presente anche in “Su chi mancat”, altro pezzo dalle sonorità southern-blueseggianti.
La lista prosegue e termina con tre omaggi: una nuova cover, “Occhi grigi” di Pino Daniele, lasciata nel suo testo originale; un racconto ispirato all’omonima poesia di Maria Carta, “Efisio Concas”, in cui lavoro ed emigrazione mineraria in Belgio si sposano con un ritorno dell’anima del proletario al paese natio; la già citata “Goceano” aperta dal canto dell’assiuolo, de sa tonca, e degno commiato di un album da possedere e consumare. Non solo da chi mastica il sardo.
Nel disco presenti anche Francesco Ogana, Paolo Succu, Bruno Piccinnu, Silvio Centamore, Alessandro Zizi, Nicola Pilo, Gavino Riva, Ernesto Nobili e Pacifico.