È un sound ottenuto scavando nel granito, quello di Erebus. Una corazzata che spezza sassi arrivati da millenni di caos e viaggi nello spazio. Un elefante di pietra che si guarda intorno, alla ricerca di forme di vita ostili, nascoste, ma presenti in quest’oscurità atavica.
Una notte colorata di rosso, come se la Terra dovesse ancora diventare quello che è ora, brulicante di vita. Qua è ancora magma e bolle di calore a miliardi di gradi Celsius.
Le chitarre di El Chino e Andrea Cadeddu creano blocchi di cemento armato rinforzato, sostenuti nel loro peso dall’incedere pachidermico della batteria di Maurizio Mura.
Dagli inferi, ancora molto vicini, il vento sinistro creato dai synth di Matteo Carta.
Non essendo prettamente un ascoltatore di stoner rock mi stupisco di quanto questo sia il genere che custodisce e fa evolvere il vero hard rock. Quello fatto di chitarre, intrecci e trame, riff possenti e definiti, assoli infiniti, psichedelici, rallentamenti e accelerazioni che liberano l’energia compressa della mente e del corpo. Quello che richiama il blues portandolo altrove.
E scopro che in Sardegna il mondo stoner è vivissimo, pulsante, ha personalità e luce propria.
Il clima torrido e la storia della nostra isola, le difficoltà e l’isolamento fisico ed immaginario, la voglia di emergere, con discrezione, aiutano nella nascita e nella custodia di qualcosa che rifugge ogni logica di mercato per forgiare delle perle di alto artigianato artistico che solo i più attenti ed appassionati riescono a cogliere.
È un dinosauro, anzi un mammut che si fa topolino per scampare all’estinzione e ripopolare in modo capillare il mondo.
Spiders arriva inaspettata. Se i riferimenti di Erebus (la traccia) sono nello stoner più propriamente detto, in Spiders ci si lascia andare.
I Nebula, infestati dai fantasmi di certo grunge più metal oriented, Alice in Chains e un po’ di cazzonaggine che ricorda quasi i Guns and Roses dei momenti più oscuri e interessanti di Use Your Illusion.
Si rallenta nuovamente (“Slow Slow Slow”) in The River, una suite che porta in un doom sognante. Black Sabbath, con la voce di El Chino filtrata come un Ozzy più umano di quello conosciuto.
Il finale è travolgente, quel basso che trita le ossa e porta in un pogo al quale ci si deve arrendere in ogni caso.
Cannibal Supernova: i monoliti di Pranu Matteddu, creati da un popolo antichissimo per portare alla luce i segreti delle profondità dei pozzi sacri, collegati al radiotelescopio di Pran’e Sanguini (altopiano di sangue), che viene utilizzato oltre che per osservare le galassie e le nebulose, per comunicare con le civiltà aliene. Il risultato è un’energia che dopo il lungo strumentale, esplode in un canto rabbioso e fulminante.
These walls Of Mud And Straw (questi muri di fango e paglia) mi fa pensare in lontananza ai Led Zeppelin più orientaleggianti e meno duri. Bello il ricamo dell’hammond.
Si chiude in territori più di genere con Deneb, dream stoner che ritorna in territori grunge. Droni chitarristici e un canto sofferto che quasi i Deftones.
La fine del viaggio volge al termine,
il letargo del topolino avrà presto inizio, la scorta di pietre dure è fatta, in attesa del momento per ridiventare il mostro immenso che è stato, passata la tempesta solare che investirà tutti gli altri esseri viventi più grossi.
Ottimo compagno di allenamento in questi giorni, Erebus. Uscito nell’autunno 2016 per la gloriosa Go Down Records, è un disco che, anche se incanalabile in un genere preciso, quello dello stoner, abbraccia un pubblico più vario, che ama sia il rock dei ’70, sia il grunge, sia la psichedelia.