«Pensiamo ancora che il mondo sia regolato da leggi fisiche deterministiche, che ogni cosa che accade sia legata a un'altra, ne sia la causa e l'effetto. La realtà è condizionata e alterata dalle nostre azioni, e ci sfuggirà sempre qualcosa che non possiamo prevedere con esattezza. Lasciarsi cadere è uno sforzo che dovremmo fare se vogliamo provare a cambiare questo destino, perché delle volte, come ha scritto Julio Cortázar, la vita sta lì, alla portata del salto che non facciamo.» Così scrivono gli Egon nel loro ultimo disco. Leggere le note di copertina e i credits nei booklet delle edizioni fisiche di un disco è una pratica ricorrente tra gli appassionati di musica. O perlomeno tra quelli che ancora acquistano dischi o dedicano agli album quella forma di rispetto verso l'artista che assume la forma di attenzione e tempo dedicato alle lyrics e alle musiche. Ancora di più se si vuole comprendere i motivi, le storie e le ragioni che hanno spinto una band a scrivere un determinato testo o scegliere di approfondire un soggetto. Lasciarsi cadere è il titolo del quarto disco in studio per i sassaresi Egon, che ritornano dopo “Leicht” del 2019, sempre per l'etichetta Mizar Elektric Waves.
Nell'anno dell'Oppenheimer di Nolan, la fisica è uno dei temi ricorrenti nell'intero lavoro e nei testi: atomi, fusione nucleare, principio di indeterminazione di Heisenberg, vuoto, deflessione di spazio e tempo come metafore per raccontare sensazioni ed esperienze. In tutti i brani si riflette un continuo gioco di ombre e luci, riproposto nelle influenze e negli stili presenti nel disco: shoegaze, art-doom, elementi di noise cupo e post punk, tra Swans e Chelsea Wolfe, ma anche di rock alternative sofisticato e stratificato alla dEUS. Gli Egon condividono con la formazione di Anversa un songwriting efficace, a livello di testi e musiche. Gli arrangiamenti e le parti strumentali creano atmosfere, offrendo una sequenza di brani eterogenei, all'interno dei quali brillano dei passaggi evocativi di forte respiro e trasporto.
Disseminati nei brani troviamo cesellature sonore quali l'uso di violini e la presenza di ben tre cori (Logudoro di Usini, Baratz di Villassunta e S'Ena Frisca di Putifigari), diretti dal Maestro Dario Pinna nel brano “Principio di indeterminazione”. La sezione fiati, con sax tenore di Luca Chessa e tromba di Luca Uras, hanno impreziosito “Raccontano”, a cui partecipa anche la voce incisiva e delicata di Carlotta Meridda dei Fenech.
L'incomunicabilità, il distacco nei rapporti umani e l'esistenzialismo sono concetti che dominano l'intero disco. Il desiderio di contatto, lacerato da distanze e incomprensioni (“nascosto alla vista/sfioro il tuo volto” “osserviamo distanti/i riflessi di luce” “tendiamo le mani, inseguendo il contatto/sfiorandoci”) sono temi sviluppati nella prosa e nei testi del gruppo.
A livello musicale troviamo episodi di noise sferzante e alternative rock ruggente, figlio degli anni ‘90, come nell‘open track “Sorvolando la Groenlandia” o in “Incontrarsi”. “Luna nuova” è un richiamo ai migliori Verdena e Marlene Kuntz, mentre “Del tutto identici” strizza l'occhio a Massimo Volume e Giardini di Mirò. Qualche somiglianza tra lo stile di Marco Falchi, in alcune tracce vocali, con Pau dei Negrita della prima metà di carriera, quando non erano ancora fissati su brani pop rock ciclostilati e ambientati in Sudamerica. L'elegante e struggente folk arpeggiato, dalle tinte post rock, nella conclusiva “Scende dolce la pioggia”, è la degna conclusione di un lavoro con diverse anime, tra i lavori più interessanti di questo duemilaventitre.