Connessioni e contaminazioni nel modello londinese:
una serie di interviste agli attori del nostro circuito per comprenderne l'importabilità
Un interessante articolo di Giulio Pecci, uscito lo scorso anno per Il Tascabile, ripercorre l'evoluzione della nuova scena jazz londinese provando a vagliarne le origini e a mettere in evidenza i fattori che hanno contribuito alla sua ribalta. Ne emerge una città in cui culture diverse si riescono a mescolare superando il passato, ma senza ignorarlo, creando qualcosa di nuovo e accessibile. E questa scena sembra essere una delle poche manifestazioni riuscite di quella fantasia che vuole le metropoli contemporanee come un laboratorio umano e artistico”. Una piccola utopia sempre auspicata a gran voce, ma altrove molto meno realizzata nei fatti. Oltre a portarne in superficie le radici, Pecci evidenzia una serie di fattori che hanno contribuito a questo cambiamento e che nel tempo si sono fatti parte attiva e fondante del paradigma.

Tra i primi, in ordine cronologico, annovera l'avviamento di efficaci e mirate politiche culturali e di integrazione, che si sono tradotte in programmi di istruzione musicale gratuita rivolti a giovani di tutte le estrazioni sociali (Tomorrow' Warriors dal 1991), e alternativi ai soggetti “istituzionali” fino ad allora deputati a quel compito, principalmente College e Conservatori. Parallelamente vengono creati nuovi circuiti intorno a luoghi con programmazioni live consolidate e già affermati nella vita sociale e culturale cittadina (come il Jazz Caffè). Nel tempo i programmi di istruzione si sono estesi anche agli istituti scolastici (London Challenge tra il 2000 e il 2008), con significative ricadute in termini di risultati e di riduzione della dispersione, mentre i progetti focalizzati sulla musica sono stati rafforzati dall'introduzione di borse di studio per soggetti svantaggiati (London Music Found del 2011).
Questo rinvigorimento culturale, agevolato dal grande lavoro di catalizzatori umani – uno su tutti, il DJ Gilles Peterson – ha fatto da humus per la nascita di importanti collettivi come il Jaza:Re:Freshed nel 2003 o il più recente Women in Jazz, incubatori per tanti talenti che di lì a poco sarebbero saliti alla ribalta internazionale. I collettivi hanno, a loro volta, rafforzato una certa tendenza a “far gruppo” già fortemente radicata nella storia della scena londinese – e del jazz tutto –, ma che nella metropoli ha dato origine a quell'intricato tessuto di featuring e collaborazioni che costellano la nutritissima produzione discografica di cui godiamo oggi. Una forte tendenza associativa tra artisti di provenienze – sociali e culturali – anche molto distanti tra loro, che caratterizza fortemente l'attuale offerta musicale, ormai non più relegabile a una mera rivisitazione dell'afrobeat. Melting pot culturale evidente nella tante compilation pubblicate e nell'incredibile numero di progetti paralleli che sfumano gli uni negli altri senza rimarcazioni e confini ben definiti.
Un forte apporto è arrivato, infine, anche dalla nascita di numerose etichette e web radio che hanno contribuito alla diffusione della musica a un pubblico vasto ed eterogeneo, ma soprattutto molto giovane. Tutto questo nonostante, in questa epopea, non siano mancati i detrattori e le difficoltà: il razzismo, da ambo le parti, ha sempre aleggiato nell'aria e le frange più conservatrici della società inglese non hanno mai fatto mancare la loro contrarietà ai progetti di inclusione e di istruzione realizzati con fondi pubblici. Grazie alla perseveranza di tutti coloro che hanno contribuito a questa spinta ora possono serenamente farsene una ragione.

Fosse semplice si potrebbe fare di questa storia una ricetta da esportare in tutto il mondo. Ma semplice non è. Le altre città non sono Londra, non tutte hanno quella capacità di catalizzare i movimenti di costume, poche altre hanno quella ricchezza culturale ed economica, e ancora meno possono dirsi così centrali e di riferimento per interi continenti. È possibile, però, prescindere per un attimo dalla visione di “scena”, in senso stretto, del fenomeno londinese per tirare brutalmente le somme – non me ne voglia il buon Guido Pecci, che alla sua indagine ha dedicato mesi, se non anni – e individuare il fondamentale apporto di almeno tre componenti in questa evoluzione, esportabili anche in altre realtà, più piccole e provinciali, come ad esempio, per dirne una, quella sarda.
La prima a emergere è senza dubbio la forte spinta delle politiche culturali cittadine e dei programmi di istruzione musicale, con particolare riguardo dei soggetti e dei contesti più penalizzati. In seconda battuta la delocalizzazione degli ambiti di produzione, con lo sviluppo di nuovi spazi e fabbriche creative lontane dai luoghi tradizionalmente deputati a questo ruolo. La spinta dal basso e la tendenza alla collaborazione tra i soggetti coinvolti nella filiera, senza prevaricazioni di razza, estrazione sociale e genere musicale, ha completato il quadro e fatto il resto. Come tante altre zone “marginali”, anche la Sardegna non è estranea alle conseguenze nefaste dell'assenza di tali dinamiche sul suo territorio e sul suo tessuto sociale.

L'impatto sulla scena londinese della collaborazione senza pregiudizi e l'incontro tra accademia e live culture, mostra, da due punti di vista differenti, come settarismo e autoreferenzialità, senza dubbio funzionali alla fase di ricerca, possano essere, per contro, fortemente ostacolanti quando si tratta di diffondere, includere e seminare cultura musicale. Anzi, se integrati, si dimostrano in grado di stimolare un'attitudine sperimentale al processo creativo, molto più di quanto non sia in grado di fare il processo inverso. Anche nell'isola, i circuiti più aperti e votati all'inclusione, si dimostrano molto più duraturi nel tempo, fertili di iniziative satellite e collaborazioni inedite, anche in grado di revitalizzare tradizioni, per quanto ricche, spesso confinate nella staticità. Non è un caso se oggi sia sempre meno raro incontrare, nei contesti più open e produttivi come quello londinese – oltre a una sterminata varietà di stili e di approcci – elementi di africa nera e maghrebina, brasiliani e caraibici, islamici e balcanici. Una visione del jazz non troppo lontana dalla world music davisiana, che poco ha a che fare con quella prevalentemente folkloristica e, spesso, poco genuina delle nostre realtà. L'hype generato da certe scene internazionali, anche minori, non dovrebbe portarci, finalmente, a pensare che, quella della contaminazione, non sia una prerogativa del solo jazz?

Ma questi sono solo alcuni degli aspetti esplorabili. E non riguardano solamente i musicisti e i festival in senso stretto: tutti i ragionamenti possibili sono estensibili alle radio, alle scuole, agli studi di registrazione, alle testate giornalistiche, ai locali e alle istituzioni. Tutto è scena. Nessuno può dirsi escluso proprio perché tutti sono – siamo – coinvolti. Per questo riteniamo sia necessario conoscere il punto di vista di tutti gli attori che potenzialmente possono giocare ruoli cruciali nel processo di produzione e diffusione di cultura musicale. E che andrebbe indagato più a fondo il loro livello di coinvolgimento, l'attenzione che viene riservata loro dalle amministrazioni pubbliche, i problemi che riscontrano, la loro prospettiva e le loro proposte, specie dopo il forte periodo di crisi vissuto da tutto il settore a causa della pandemia.
Per provare a fare un po' il punto, a un anno dall'inizio delle restrizioni, Sa Scena avvierà quindi un ciclo di interviste a insegnanti, organizzatori di eventi, speaker radiofonici, gestori di locali, tecnici e, possibilmente, funzionari pubblici, volto a fare un passo oltre la – pur legittima e doverosa – recriminazione per quanto negato dalle restrizioni, e a cercare di mettere più a fuoco quale direzione prendere di qui in avanti.