Zoe Pia è una musicista di Mogoro, classe ‘86. Si è diplomata in clarinetto al Conservatorio di Cagliari e specializzata al Conservatorio di Rovigo. Qui, giovanissima, inizia ad approcciarsi al jazz e alla musica improvvisata. Poi arriva l’Accademia di Siena,i Seminari di Nuoro Jazz, il Conservatorio di Murcia e le launeddas. Tutto questo la porta a Shardana, il suo album d’esordio che nel 2017 la porta dritta tra i grandi innovatori della cultura musicale sarda e la fa conoscere al grande pubblico. Ma Zoe non si limita alla scrittura e alla composizione e l’anno successivo mette in piedi il festival Pedras et Sonus, una delle più importanti manifestazioni jazzistiche con un particolare riguardo alla declinazioni contemporanee della musica e degli strumenti tradizionali, e altre manifestazioni come Little Jazz Festival e Jatzilleri. L’abbiamo raggiunta per farci raccontare qualcosa di più sul suo percorso e questa è l’intervista che ne è scaturita.
Ciao Zoe. Da Shardana è passata tanta acqua sotto i ponti e oggi puoi dirti una clarinettista e compositrice affermata e rispettata. Questo 2023 è stato un anno in cui molte artiste sono salite in qualche modo alla ribalta. Penso ovviamente a Daniela Pes, ma anche a Bluem e Valucre – giusto per citarne alcune – che si sono mosse molto bene sul versante dell’elettronica e del pop. A noi è sembrato un segnale interessante per la musica prodotta nell’isola, se non altro per la varietà di contenuti che hanno saputo mettere sul tavolo. Tu che idea ti sei fatta?
Ciao Simone, da Shardana è iniziata una navigazione che potrebbe avere centinaia di aggettivi. Il timone porta una scritta importante e intoccabile al di sopra di tutte le condizioni metereologiche: radici. Sono molto felice che la nostra isola esprima la propria creatività con artiste di ampio raggio, d’altronde siamo la terra in cui il culto della Dea Madre si è sviluppato in maniera preponderante.
Però questi ultimi anni hanno iniziato a scarseggiare progetti originali sul versante del jazz e della musica sperimentale in generale. E ancora più evidente, a meno di poche eccezioni, a mio avviso, è una certa carenza di musiciste in quei “perimetri”. Pensi che siano ambiti ancora troppo maschili?
Sicuramente l’ambito maschile prevale per tanti aspetti e la donna che “osa” corre il rischio di trovare ostacoli, etichette, haters e muri, oserei dire, razziali, pronti a distruggere sogni, libertà di espressione e rispetto in maniera cruenta. Sia da parte di uomini chiusi nella propria zona di comfort, che da tante tipologie di donne del settore: quelle che hanno combattuto ottenendo un poco di ciò che avrebbero voluto (incattivite e invidiose), quelle che non hanno avuto la forza di provarci (frustrate e depresse), quelle che ricalcano gli stereotipi ovvero di esistere come sostegno dell’uomo in nome dell’amore (che in realtà è sottomissione).
Comunque devo dire che i progetti originali secondo me ci sono, forse poco conosciuti, ma con il mio festival trovo sempre un ventaglio di artiste. Uno degli obiettivi è infatti quello di dare luce alle donne che cercano strade non convenzionali e che hanno trovato il modo di esprimere la propria identità.
Tu hai frequentato i Seminari di Nuoro Jazz e forse per te, come per tanti altri giovani jazzisti sardi, quella è stata una base importante per il lancio della tua carriera. Con il senno del poi, che esperienza credi sia stata?
Si, ho frequentato i Seminari di Nuoro Jazz l’anno dopo aver frequentato quelli di Siena Jazz. L’esperienza di Nuoro è stata importante, calorosa e formativa e durante una session di prove del gruppo di docenti aprirono la possibilità a studenti di suonare un brano. Io corsi al volo nella sedia a fianco a Paolo Fresu con il cuore a mille e in quei giorni lui mi spronò a dar vita a quello che poi sarebbe diventato il Pedras et Sonus Jazz Festival.
Ho letto nella tua bio che hai trascorso un semestre al Conservatorio Superior de Musica de Murcia. Dopo aver frequentato i Conservatori di Cagliari e di Rovigo, c’è qualcosa che ti ha particolarmente colpito dell’ambiente accademico spagnolo?
Si, due cose mi colpirono molto: la presenza e il rispetto sacrale nei confronti della banda musicale, ovvero l’orchestra di fiati e percussioni che sostituiva l’orchestra sinfonica con gli archi. L’altra cosa che mi stupì allora fu la presenza delle classi di chitarra flamenca e di canto tradizionale, a differenza dell’Italia che ancora non aveva sviluppato e aperto la possibilità di intraprendere i corsi di studio professionali valorizzando l’unicità delle innumerevoli sfumature che abbiamo. Sono contenta che qualche anno dopo a Cagliari sia partito il percorso accademico di launeddas. Comunque era incredibile ritrovarmi in feste a casa degli studenti dove suonavano la chitarra flamenca cosi come oggi mi ritrovo a casa dei Tenores di Orosei che cantano dopo una cena, in maniera genuina e spontanea.
Sei una delle prime promotrici e organizzatrici di un festival complesso come Pedras et Sonus. Anche qui immagino ci siano delle difficoltà. Per te quali sono state?
Le difficoltà sono state tante. Abbiamo persino trovato un periodo arduo come quello della pandemia al nostro terzo anno di vita e abbiamo voluto resistere con sacrifici non indifferenti. Le amministrazioni che cambiano sono uno dei problemi cruciali, perché nei piccoli paesi si è spesso poco lungimiranti: chi sale al governo spesso non conosce le potenzialità di un festival culturale, spesso hanno vissuto più situazioni di intrattenimento che poco hanno a che vedere con l’obiettivo di sviluppo socio-economico-culturale di un territorio. Sono molto contenta del fatto che partner istituzionali di alto livello ci apprezzino come il Ministero dei Beni e Attività Culturali, la Regione Sardegna, la Fondazione di Sardegna, l’azienda Corsica e Sardinia Ferries e il Comune di Mogoro che è sempre stato presente.
Raccontaci un po’ del festival. Spingi sempre tanto sulle espressioni musicali della tradizione sarda. Forse ogni anno un po’ di più. Ora che siete giunti ormai alla sesta edizione, come ti senti di definire la linea tracciata dal festival? Cosa è diventato oggi Pedras et Sonus?
Il festival è il riflesso della mia anima. Io sono nata e cresciuta a Mogoro frequentando tutti i comuni limitrofi, e mi sono innamorata dell’isola una volta che ho provato quel dolore lancinante che conosce la maggior parte degli emigrati. L’unicità e la varietà incredibile di storia, cultura, artigianato, suoni, profumi e sapori sono una ricchezza che meritano di essere condivisi e illuminati sia per gli stessi abitanti dell’isola che per lo sviluppo turistico di zone ancora poco conosciute.
Oggi Pedras et Sonus ha sviluppato diversi segmenti tutti nell’onda della sostenibilità ambientale e con un’attenzione verso gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. Ci sono i concerti principali che vanno a svolgersi in siti archeologici come il Nuraghe Cuccurada quest’estate, poi c’è il format nato lo scorso anno denominato Jatzilleri che va a trasformare i locali di Mogoro in jazz club alla sarda per una sera e poi c’è il segmento dedicato al canto a tenore con un’attenzione verso il coinvolgimento dei più piccoli grazie alla narrazione fiabesca di Tatabolla e le sue Bolle a Tenore.
Abbiamo partner istituzionali e sponsor tecnici importantissimi, siamo dentro l’Associazione nazionale I-Jazz e io nel mese di maggio sono stata eletta nel Consiglio Direttivo nazionale, è una realtà che riesce ad avere una sua identità. Di recente siamo anche stati vincitori del Premio Gender Equality consegnato a L’Aquila in occasione del festival, in ex-equo con un’eccellente realtà di Mantova.
Tu però non organizzi solo Pedras et Sonus. Nel 2022 hai iniziato a portare avanti il progetto Little Jazz Festival, un festival jazz che coinvolge studenti delle scuole superiori di Fiesso Umbertiano, piccolo comune nella provincia di Rovigo. Ci racconti un po’ questa esperienza?
Il Little Jazz Festival è un’altra creatura nata da un periodo buio, quello del secondo anno scolastico coinvolto dall’emergenza sanitaria. Vedere i miei studenti ancora ostacolati nella possibilità di stare insieme e suonare insieme perché studiosi di uno strumento a fiato aveva fatto scattare in me la ricerca di una soluzione, con il famoso motto che ogni problema è un’opportunità.
E siccome i problemi non mancano mai, ho cercato di far confluire in una risposta la soluzione a più ostacoli, ovvero sviluppare una sensibilità e avvicinare i ragazzi al mondo dell’organizzazione di un festival jazz, in quanto genere riconosciuto dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità che si rifà all’educazione civica, materia di studio. Ho pensato che in questo modo avrebbero avuto la possibilità di lavorare insieme a un qualcosa che chissà se si sarebbe potuto realizzare visto il periodo incerto, ma sicuramente avrebbero sviluppato competenze trasversali che avrebbero potuto utilizzare per essere un giorno musicisti, organizzatori di eventi, amministratori pubblici o privati.
Il risultato è stato sorprendente, ho conosciuto una Generazione Z fenomenale che ha espresso il proprio potenziale scegliendo di essere direttore artistico piuttosto che di produzione, grafico piuttosto che ufficio stampa, fundraiser piuttosto che responsabile delle relazioni esterne o di valutazione. Si è svolto per due anni nella scuola Secondaria di Fiesso Umbertiano in provincia di Rovigo e quest’anno chissà se si ripeterà perché al momento ho deciso di non insegnare.
Prima accennavi all’esperienza Jatzilleri, dove hai provato a convertire in jazz club, anche se solo per una sera, alcuni locali di Mogoro, il tuo paese natale. Com’è andata?
Jatzilleri è stato un boom, ha divertito moltissimo i locali di Mogoro e qualcuno ha continuato a organizzare concerti jazz anche dopo il festival. Questo risultato è stata una grande soddisfazione per me. Abbiamo avuto un nuovo ingresso in famiglia, ovvero Pabillonis a partire dall’agriturismo Surbiu. Ora avremo un’altra ondata di Jatzilleri nel weekend della seconda settimana di ottobre in concomitanza con i concerti Tenore che oltre Mogoro vedranno coinvolti i comuni di Pabillonis, Morgongiori, Pau e Villanovaforru.