Gli organizzatori di festival e manifestazioni culturali rivestono un ruolo fondamentale nella scena musicale. Simone La Croce ha intervistato Nanni Angeli, che insieme al fratello Paolo, organizza da venticinque anni il festival internazionale Isole che parlano, eccellenza tra le manifestazioni galluresi, per contaminazione, inclusività e organicità della proposta musicale e culturale. Gli abbiamo chiesto come sono arrivati fino a questo punto, quali sono le idee che stanno alla base del loro progetto e come riescono a coniugare tradizione e innovazione fino a farne un vero e proprio marchio di fabbrica del festival.

Lo scorso anno Isole che parlano ha festeggiato la ventiquattresima edizione. Quando avete iniziato, nell’ormai lontano ‘96, pensavate che avreste conservato lo spirito originario della manifestazione, arrivando così lontano nel tempo e in alto nella proposta?
Fin da adolescenti abbiamo organizzato concerti ed eventi a Palau e nel 1993 fondammo Sarditudine, con l’intento di strutturare il nostro percorso. Isole che Parlano nacque casualmente tre anni dopo, a seguito della richiesta dell’Assessore alla Cultura del Comune di Palau, per organizzare un concerto di Paolo, una mia mostra fotografica e uno spettacolo Teatrale di Agostino Aresu, cofondatore del festival. Eravamo profondamente influenzati da processi collettivi che ci vedevano coinvolti a Bologna (dove vivevamo) e decidemmo di potenziare la manifestazione, prendendo in prestito il titolo di un brano musicale del musicista Stefano Zorzanello: Isole che Parlano. Il festival nasceva così e la sua locandina recitava “Ogni isola ha la sua identità, la sua diversità, la sua memoria… Isole realtà che si intravedono ma raramente comunicano. Isole che parlano”. Mettemmo “bianco su verde” queste poche righe che ancora oggi rappresentano un Manifesto nel quale, a distanza di 25 anni, ci riconosciamo. Guardando a ritroso, trovo una crescita di quei concetti (allora in nuce) e una coerenza di cui vado fiero. Non perché la coerenza sia un valore assoluto, ma per ciò che abbiamo fatto e soprattutto per come lo abbiamo fatto. Credo che nessuno di noi immaginasse di ritrovarsi a gestire, dopo un quarto di secolo, un capitale culturale ed umano così importante.
Due degli aspetti che caratterizzano la vostra “offerta” dal punto di vista degli eventi, sono la delocalizzazione e la scelta delle location, mai casuali e sempre pertinenti alle esibizioni e agli artisti. Ci racconti un po’ come avviene questa scelta?
Isole che Parlano è un festival con solide radici. Da sempre gli eventi si tengono a Palau, luogo di nascita e crescita del festival. Solo dal 2012 abbiamo iniziato a coinvolgere i comuni limitrofi o molto distanti, spinti sia dalla necessità di condivisione e collaborazione con luoghi accomunati da cultura e lingua, che dalla volontà di creare rete con associazioni, amministrazioni e organizzatori, con cui ci interessa molto instaurare una dialettica dialogante.
Più che di delocalizzazione parlerei di dislocazione. Da sempre abbiamo cercato di aprire spazi inutilizzati, di cui riconoscevamo il potenziale. Nei primi otto anni si trattò di spazi più canonici per eventi spettacolari ma, a partire dal 2005, decidemmo di spostare il festival a settembre e di realizzare le nostre attività in luoghi inconsueti: in riva al mare al tramonto, ai piedi del Faro in notturna, in aree archeologiche e in zone culturali di comunità, sulle isole dell’arcipelago di La Maddalena o sonorizzando la Roccia dell’Orso con cori tradizionali.
Tutto ciò oggi risulta quasi una normalità per tante rassegne e rappresenta un elemento acquisito, ma sedici anni fa, costituiva un progetto profondamente originale e visionario che comportava rischi e anticipava l’esplorazione di sentieri non convenzionali.
Prima lavoriamo alla scelta dei luoghi e in un secondo momento, con Paolo, attingiamo da un’ampia rosa condivisa di artisti e ci confrontiamo sulla loro collocazione negli spazi. Solo quando siamo entrambi convinti dell’abbinamento luogo/performance sciogliamo le riserve e confermiamo il programma. Chiaramente la scelta è fortemente motivata dalla tipologia di concerto rispetto al sito che lo ospita (acustici, semiacustici e/o amplificati), dalle atmosfere che pensiamo di proporre nei siti, dall’attitudine o meno dei musicisti a relazionarsi con i contesti (naturalisti, archeologici, paesaggistici) delle loro performance. Negli anni abbiamo constatato che alcuni contesti ci danno grandi margini d’azione. In quei luoghi realizziamo le proposte più “rischiose” e meno “facili” e rischiamo commistioni in prima assoluta, che spesso si sono rivelate talmente convincenti da circuitare, successivamente, in ambito internazionale.

Un’altra cosa che mi ha colpito quando sono venuto a farvi visita sono i volontari che supportano il festival. Come avviene il reclutamento e quanto sono importanti per la riuscita della manifestazione?
I volontari costituiscono una delle anime più importanti del festival e li ritengo fondamentali sia per la riuscita pratico-organizzativa, sia per la ricaduta socio culturale che lo stesso lascia sul territorio. Isole che Parlano è come una grande famiglia che si ritrova nelle giornate del festival.
Lo staff si è formato nel tempo. I volontari di oggi hanno dei trascorsi che vanno da percorsi ultraventennali a frequentazioni più recenti. In larga parte sono residenti di Palau e sono soci dell’Associazione Sarditudine, persone con cui siamo cresciuti e che, negli anni, hanno frequentato i laboratori delle prime edizioni o di manifestazioni precedenti al festival. Poi ci sono persone – sarde o della penisola – che si sono avvicinate a Isole che Parlano e non lo hanno lasciato più. Alcuni, partendo dal loro ruolo all’interno del festival, hanno maturato negli anni percorsi e professionalità e sono oggi lavoratori indispensabili per la riuscita della manifestazione.
Abbiamo sempre creato le condizioni affinché tutti i lavoratori di Isole che Parlano potessero seguire gli eventi in programma. Crediamo che sia stato indispensabile per la formazione culturale e per una crescita armonica dei rapporti e delle capacità critiche e gestionali. La risposta è un forte senso di appartenenza e coesione tra i volontari. Inoltre la loro attitudine gioiosa è riscontrabile ogni anno nel rapporto con il pubblico e con gli artisti ospiti, con i quali nascono relazioni di amicizia durature nel tempo. Quando ti parlo di staff, inevitabilmente cito anche tecnici, addetti stampa e operatori che lavorano dietro le quinte: con i professionisti con cui lavoriamo, cerchiamo sempre di stabilire dei rapporti di scambio proficui e costruttivi. Oggi stiamo riflettendo sulla crescita nell’età media del nostro team e del nostro pubblico. Ci stiamo interrogando su quali modalità di ingresso adottare, per farli crescere numericamente tra i giovani e garantire un futuro che possa andare oltre la nostra generazione.
Isole che parlano rappresenta da sempre un punto di incontro di musiche e culture diverse, e anche nella scelta degli artisti e delle esibizioni, tende sempre a far collaborare musicisti anche molto distanti tra loro, geograficamente e culturalmente. Che valore date a questo aspetto? Perchè per voi è davvero importante? In che modo può esserlo per la musica (e non solo)?
Isole è sempre stato un contenitore di curiosità e di attenzioni. Il festival è caratterizzato dalla mancanza di un genere puro di riferimento, il primo sottotitolo “tra tradizione ed eterodossia” è un assunto che abbiamo evoluto negli anni nella forma e nei contenuti. Nel primo decennio abbiamo ospitato artisti che provenivano dalla tradizione pura e altri con un percorso di rilievo in quelle che, nei primi anni ’90, venivano chiamate musiche eterodosse e di ricerca. In seguito abbiamo ampliato molto il panorama, continuando a lavorare sul rapporto tra tradizione e musiche contemporanee con radici, dando particolare attenzione al campo degli improvvisatori e sperimentatori internazionali operanti tra diversi linguaggi musicali, senza mai dimenticare la Sardegna, scrigno di tesori di inestimabile valore. Cerchiamo di proporre artisti che raramente circuitano sull’isola, con proposte che riteniamo solide e innovative. Inoltre, non di rado, proponiamo produzioni originali tra artisti che ci sembra interessante mettere in contatto. Ci piace la babele di suoni e storie che ogni edizione portiamo a casa, poniamo grande attenzione alla parità di genere, e negli ultimi anni abbiamo abbassato l’età media degli ospiti: ci incuriosiscono le proposte delle nuove generazioni e i nuovi linguaggi che propongono. Tendiamo a non ripetere gli stessi artisti, ma ne seguiamo le traiettorie (ogni tanto cediamo al desiderio di ri-ospitarli per godere della loro crescita). Oltre le performance, gli incontri didattici con gli artisti, ogni anno, ci danno modo di comprendere appieno poetiche, percorsi e problematiche. Un altro scopo importante che ci siamo dati è mettere in contatto artisti sardi (tradizionali e non) con artisti e pubblico internazionale.
L‘internazionalità è un carattere che riflette la nostra curiosità, la nostra apertura, e la consapevolezza che la conoscenza non può che essere arricchente, che la convivenza e la disponibilità all’ascolto, per quanto non semplici, sono l’unica reale prospettiva civile percorribile. Trasliamo questo sentore dalla nostra vita quotidiana verso il festival, e non viceversa, proprio perché la riteniamo essenziale in ogni ambito: sociale, politico e quindi culturale e di spettacolo.

La Gallura è teatro di altri due importanti festival che si svolgono più o meno nello stesso periodo di Isole: Time in Jazz e Musica sulle Bocche. Avete mai pensato di “coordinarvi” un po’ sulla falsa riga di Dromos, che in poco tempo è riuscito a diventare una delle manifestazioni più importanti in Sardegna?
Dromos è una preziosa realtà, che ha avuto la forza di crescere nelle dimensioni e nell’area coinvolta, con una chiara specificità. Nel caso dei grandi festival del Nord Sardegna, stiamo parlando di percorsi storicizzati con una parabola di estrema longevità (34 anni Time in Jazz, 25 Isole che Parlano e 21 Musica sulle Bocche). Sia con Paolo Fresu che con Enzo Favata ci conosciamo da lunga data, e tra noi c’è attenzione, rispetto e volontà di collaborare. Con questi due festival, molto diversi fra loro, abbiamo alcune similitudini (oltre la galluresità) e li osserviamo nel loro sviluppo con estremo interesse. Tuttavia esiste una differenza sostanziale: entrambi, per quanto aprano i loro orizzonti su altre musiche, sono festival jazz, mentre Isole che Parlano, per quanto si affacci anche su produzioni di ambito jazzistico, lavora su contenuti musicali differenti. Nonostante ci siano dei punti di contatto (ad esempio i musicisti ospitati, in anni diversi, in tutti e tre i festival), si può osservare che le tre manifestazioni mantengono una propria e ben definita identità, con peculiarità che le differenziano. Riteniamo che ciò costituisca una ricchezza, per l’offerta culturale/turistica, per il pubblico e per il territorio. Con Time in Jazz lavoriamo insieme alla realizzazione di alcuni eventi da circa 10 anni. Credo che coordinarsi per non sovrapporre i calendari (come in alcuni casi succede) e potenziare i momenti di collaborazione, possa costituire il presupposto ideale di una macro realtà: un cartellone, in cui i festival lavorino con la loro individualità, per tracciare un continuum musicale di un mese e mezzo di concerti in luoghi meravigliosi del nostro territorio. Il tutto dovrebbe poi sfociare in una dimensione ancora più ampia che arrivi al coordinamento di tutte le realtà dell’Isola, con un occhio di riguardo a chi prova oggi ad inseguire i sogni che noi percorrevamo con audacia 25 anni fa.
Isole che parlano è stato uno di quei festival che l’anno scorso è riuscito comunque a svolgersi, nonostante le mille difficoltà, dovute sia al Covid, sia al mancato appoggio degli enti locali a un mese dalla manifestazione. Come ci siete riusciti?
L’ultima edizione è stata complessa sia per tutte le novità nella gestione del distanziamento e nella limitazione degli ingressi, sia perché ci siamo trovati verso fine luglio con un’ordinanza del Comune di Palau che vietava le attività di spettacolo in pubblici spazi aperti, sia, ai primi di agosto, per il blocco delle attività di spettacolo sull’isola di La Maddalena. Avevamo già in programma la data di Arzachena, e abbiamo chiesto ospitalità ai comuni limitrofi per non snaturare il puzzle della dislocazione degli eventi, la risposta è stata immediata e positiva, così abbiamo rivoluzionato il programma originario, sostituendo i luoghi per cui era stato pensato, allontanandoci dal mare e realizzando 4 dei 12 concerti in programma ad Arzachena, Santa Teresa e Luogosanto, ed i restanti 7 a Palau tra la Fortezza di Monte Altura e l’area della chiesa Campestre di San Giorgio.
Sapevamo da maggio/giugno che per la prima volta in 24 anni non avremmo potuto contare sul contributo del Comune di Palau (che aveva dirottato i fondi per la cultura sul sociale), ma lo stesso Comune ci ha concesso tutte le strutture al chiuso per i laboratori e la mostra, il teatro e la possibilità di utilizzo della fortezza di Monte Altura in accordo con la società che gestisce questo spazio.
È stato veramente faticoso ma l’esperimento ha avuto una resa che ci ha soddisfatto tantissimo. In un anno in cui tutto si è fermato, siamo orgogliosi di essere riusciti a realizzare il festival (pur in formato ridotto, soprattutto per i limiti ai 200 posti disponibili ad evento) e di aver confermato anche le altre tre fondamentali sezioni di cui si compone la manifestazione: Isole che Parlano ai Bambini, di Fotografia e di Sapori.

Quanto può diventare determinante il supporto delle amministrazioni pubbliche nella riuscita di manifestazioni complesse e articolate come Isole che parlano? E non parlo solo in termini economici, ma soprattutto logistici e di sostegno a 360 gradi di manifestazioni culturali ad ampio raggio d’azione come la vostra.
Il supporto delle amministrazioni pubbliche per un festival residente e itinerante come Isole è fondamentale, direi vitale. Nonostante in 25 anni si siano succedute a Palau 6 amministrazioni (e alcuni commissari prefettizi) e nonostante i loro differenti approcci nei confronti del festival, il fatto di essere sempre stati supportati – unito alla nostra caparbietà e capacità – è probabilmente il motivo che ci ha consentito di resistere fino a oggi. Credo che nel 2021 il festival possa essere considerato un patrimonio per il territorio, per la comunità locale, per la Sardegna e per l’Europa: rientriamo tra le realtà dell’EFFE Labels, che annovera i festival più importanti del vecchio continente.
Nel 2020 siete stati uno dei tanti organismi che sono rimasti tagliati fuori dal click day per il bando legge 7. Come avete letto questo colpo di coda della Regione?
Crediamo che non ci sia da parte dell’Assessore Regionale al Turismo una lettura concreta della ricchezza e del reale richiamo turistico prodotti dal comparto degli eventi culturali. Purtroppo è l’approdo di una deriva che arriva da lontano: basterebbe vedere le date di pubblicazione delle graduatorie degli ultimi 10 anni, per capire che svariati milioni di euro, destinati alla promozione del territorio con “Eventi di Grande interesse turistico” (perché la legge 7 nel 1955 è stata promulgata per questo motivo), vengono deliberati tra agosto e dicembre, inficiando potenzialità ed investimenti che amplificherebbero la pubblicità e la ricaduta economica degli eventi stessi. Inoltre prima di questa giunta erano stati strutturati i cartelloni con una razionale divisione delle risorse, ma negli ultimi anni abbiamo assistito al taglio sistematico e continuo delle stesse destinate alla cultura, che per il 2021 è direttamente zero €!
Il click day è stato la ciliegina sulla torta, un escamotage per non entrare nel merito del valore delle proposte: quindi finanziarne poche e senza alcun criterio. Concludo con un mea culpa: tutti abbiamo partecipato al bando accettando questo “massacro”, avremmo dovuto protestare prima, uniti e a voce molto alta, anche se stiamo parlando di un bando pubblicato a fine settembre 2020 per manifestazioni da svolgere da gennaio a dicembre 2020.

Avete retto al contraccolpo?
Abbiamo retto al contraccolpo, perché da agosto la situazione poco chiara e l’esperienza ci hanno consigliato di non contare sul contributo della Legge 7, e a muoverci su altri fronti. Se la stessa situazione si fosse presentata nei tre anni precedenti sarebbe stata per noi molto problematica. Invece grazie a nuovi enti contributori e ad alcuni ristori siamo riusciti a realizzare comunque il festival con successo e in maniera sostenibile. Il bando fu pubblicato a festival concluso, partecipammo con l’intenzione, eventualmente, di coprire i fondi propri investiti dall’Associazione. Ciò non è successo, ma siamo assolutamente solidali con chi a causa di quel bando si è trovato e si trova in condizioni di estrema difficoltà.
Il festival si farà comunque quest’anno?
Certo! Con maggiore determinazione e immutato entusiasmo. Ritorniamo dal 5 al 12 settembre e sarà una bellissima edizione.
Ci puoi anticipare qualcosa?
Sentivamo la necessità di tornare ai concerti in riva mare, così abbiamo costruito un programma con cui, pandemia permettendo, puntiamo a tornare nei luoghi del cuore del festival e a inaugurare spazi nuovi. A brevissimo presenteremo il programma ufficiale. Ti posso anticipare Il ritorno di Valeria Sturba e Vincenzo Vasi con un Ooopopoiooo allargato per una produzione originale, i Seward, eclettica band con base a Barcellona e musicisti da Argentina, Venezuela e Spagna, che suoneranno sotto la luce del Faro di Punta Palau, l’emergente musicista e cantante norvegese Synne Sanden con un quartetto acustic-elettronico che proporrà un’originale rilettura degli ultimi album della band leader sul bagnasciuga di Cala Corsara, sull’Isola di Spargi, e tantissime altre bellissime produzioni, senza dimenticare i laboratori e la tre giorni dedicata ai bambini, la mostra di un fotoreporter di spessore internazionale “costruita” per Isole e i vari momenti di degustazione enogastronomica.