È tutta scena fa tappa a Cagliari in Via Molise, nel quartiere La Vega, per intervistare Mauro Aresu di Brigada. Locale, circolo, ritrovo, oramai diventato un punto di riferimento cittadino per attività culturali e sociali a tutto tondo: musica, reading, proiezioni, vertenze e solidarietà.
Ideatore, insieme ai compagni, di Viva la Vega e Jazz for the Masses, iniziative che hanno riportato rispettivamente blues e jazz dentro la città, con lui abbiamo parlato di pulsione sociale, inclusività, causa: tutti elementi, secondo lo spirito del circolo, imprescindibili per una vera espressione artistica.
Nasce Default, cresce Su Tzirculu, si sviluppa in Brigada. Dopo tutti i restyling, la costante è la necessità di rappresentare un presidio di resistenza: sociale, gastronomica, e anche musicale. È un’impressione sbagliata la nostra?
Il circolo non ha mai voluto essere settoriale o votato a qualcosa in particolare. Non è mai stato un caffè letterario, o un Jazz Club, né, tanto meno, un circolo di partito. La costante delle tre versioni è stata la volontà di creare una casa in cui poter esprimersi in tante forme, nella maniera più inclusiva possibile. Questa esigenza, in un primo periodo, è coincisa soprattutto col riuscire a garantire un servizio che mantenesse un livello economico accessibile alla maggior parte delle tasche. Da lì si è partiti per arrivare a ragionare su altri livelli come l’inclusività di genere. Forse, per la nostra storia, anche “presidio” diventa un po’ stretto, visto che, sì, ci sono quattro mura che ci circondano, ma da esse siamo usciti nei momenti in cui ci saremmo dovuti stare in casa per questioni di forza maggiore (la pandemia).
Da sempre, complice o colpevole il vicinato, avete attuato la politica dei concerti presto. se apparentemente può sembrare una mera questione di orario, io penso che porti con sé una diversa concezione del live, e lo intenda realmente per quello che è – un’espressione artistica – e non una “serata”. Siete d’accordo o è solo colpa del vicino?
Abbiamo fatto ii necessità virtù: l’essere collocati all’interno di un rione ci impone necessariamente di ragionare su come non essere un corpo estraneo allo stesso. Con alterne vicende abbiamo sempre cercato un dialogo con quartiere e palazzo perché si trovasse un equilibrio tra le differenti esigenze. Siamo passati dal chiudere alle sei del mattino al chiudere alle due. I concerti, fin da subito, non sono mai andati oltre la mezzanotte, e, per quelli che non prevedevano batteria con spazzole, ci siamo lanciati anche sul pomeridiano. All’inizio probabilmente l’idea di dare spazio, tanto spazio, alla musica non era chiarissima, ma ha preso forma col tempo. Allo stesso modo, la cura nelle performance, sperimentando, sbagliando e ogni tanto azzeccandone una, è andata via via migliorando. Questa evoluzione ci ha fatto avvicinare alla concezione di cui parlavi tu: non tanto una “serata”, quanto un’espressione artistica che va curata e a cui va dato il posto che non ha avuto in questi due anni di chiusure, in cui artisti e operatori sono stati trattati a pesci in faccia.

Viva la Vega e Jazz for the Masses, come nascono e con quale intento?
Viva La Vega e Jazz For The Masses nascono da pulsioni differenti, non solo come scelte stilistiche precise, ma anche come necessità. Banalmente, erano due generi che si sposavano con l’avere un locale al centro di un quartiere, senza dover per forza ingaggiare una guerra con i vicini. Allo stesso tempo erano due tra le espressioni più interessanti che in quel momento si potevano scorgere in Sardegna. Viva la Vega è stato, ogni due venerdì, la casa di un’armata di one-man-band che spaziavano dal delta blues al rock’n’roll, senza far rimpiangere generi più pesanti che difficilmente si sarebbero sposati con le esigenze del vicinato. Jazz For The Masses ha avuto una genesi un po’ differente: l’idea nasce da alcune serate jazz che venivano organizzate nel centro sociale in cui militavo quando vivevo a Torino, il CSOA Askatasuna. Un giovedì al mese veniva organizzata una Jam Session che raccoglieva gli affezionati del genere. Là la serata non era mai esplosa, ma a me, che avevo sempre visto il jazz come un genere per le élite, era rimasto il tarlo che potesse anche approdare ai ceti popolari, da cui per altro è nato e a cui dovrebbe tornare. L’incontro con Gianrico Manca e Rubens Massidda (su suggerimento di Francesco Bachis) ha concretizzato quell’idea e l’ha fatta diventare più grande. Non solo una jam, ma una kermesse di jazz band formate da giovani artisti e maestri affermati che si mescolavano. Tutto ciò era unito a un ingresso a offerta libera secondo un dettame a noi caro: da ognuno secondo le proprie possibilità, a ognuno secondo le proprie necessità.

A Milano, nel muro esterno del Blue Note, tempio del jazz blasonato, campeggia una scritta “W il jazz a prezzi popolari”. Il palco di Jazz for the masses è stato calcato da più o meno chiunque faccia jazz in città e non solo, arrivando a ospitare l’orchestra jazz del conservatorio, in un’atmosfera molto più rilassata rispetto all’immaginario del jazz club. Scommetto che tra le vostre intenzioni non c’era solo quello di organizzare jam session.
Premetto che la pulsione sociale è sempre stata la molla che ci ha portati all’attivazione su tanti campi e che quindi l’attenzione verso una fruizione popolare di qualsiasi espressione ci ha spinto nelle differenti direzioni. La comprensione di quello che stava accadendo con Jazz For The Masses, però, l’abbiamo avuta nel corso del tempo. Adesso sappiamo di non volerne fare a meno, non solo per il fatto che la serata va bene e che sul palco salgono sempre band differenti, ma proprio per quello che poi a nostro avviso ha significato questa giornata: l’incontro tra generazioni differenti di jazzisti che possono confrontarsi e crescere, suonando assieme durante le jam. Questo credo sia impagabile, come è impagabile vedere musicisti un tempo acerbi crescere grazie al loro impegno e, speriamo, grazie anche a questa possibilità di incontro. Non solo sul palco, ma anche di fronte al palco è successo qualcosa: questa commistione di generazioni si è vista anche tra i tavolini, affollati di giovani universitari e di abitanti del quartiere che probabilmente non erano mai andati a una serata jazz. Ripeto, forse pensare che avessimo questi obiettivi sin dall’inizio è farci troppo scaltri, ma ora ne apprezziamo anche i risultati sottesi.

C’è qualche aneddoto che ha lasciato il segno, magari nelle jam post live o non so?
Sugli aneddoti mi affido sempre a qualcuno con la memoria più lunga della mia e chi meglio di Rubens (Massidda, ndr), vista la sua presenza costante al giovedì di Su Tzirculu, può esserci d’aiuto? Grazie a lui siamo risaliti alla motivazione avanzata dal Maestro Massimo Ferra per venire a suonare da noi: il biliardino – grande assente nei jazz club cagliaritani. O a quel ragazzino di 14/15 anni che, non avendo un gruppo, si faceva accompagnare dalla mamma o dallo zio e aspettava diligentemente la fine del concerto per suonare alla jam. Questi due esempi raccolgono l’eterogeneità e per certi versi anche l’informalità e l’aria “casalinga” del circolo: tutti elementi che hanno permesso la nascita di amicizie e di gruppi intergenerazionali.
Una delle nostre ambizioni è quella di mettere in contatto le diverse scene. Da qui anche la nostra serie di interviste, per provare a farci raccontare quale può essere una delle formule più adatte. Voi proponete la più diretta: il palco. Sul palco salgono e si scambiano diversi musicisti di diversa estrazione, artistica, sociale, anagrafica. Può essere un modo per abbassare i recinti tra i generi?
Per quanto ci riguarda è proprio così. Nella musica, la commistione tra i generi e le influenze è una cosa normale che solo i puristi e i conservatori (categoria a cui non vogliamo appartenere) non apprezzano. Noi diamo lo spazio e la disponibilità perché ciò avvenga: starà al fermento culturale capire quale direzione prendere e sicuramente noi non metteremo ostacoli. Per noi questo è un laboratorio aperto a tutto e a tutti con le solite nostre discriminanti che speriamo vengano fatte proprie anche da altri spazi culturali: no fascisti, no sessisti, no razzisti, nell’ordine in cui preferite.
E questa commistione, almeno nella città di Cagliari, a voi pare si stia realizzando?
Non avere una continuità territoriale, anche solo per questo comparto, non aiuta la crescita, lo scambio e il confronto. Nonostante questo, crediamo che ci sia sempre stata una certa voglia di travalicare i generi, sia negli ascolti che nella composizione. Questa tendenza è data dalla difficoltà, anche economica, per chi ascolta, di andare a vedere i gruppi “in continente”. Nella mia esperienza di adolescente, nei primi anni duemila saremmo andati a vedere qualsiasi concerto, ci bastava poter ascoltare qualcosa. Andavamo all’Hazard Skatepark e tornavamo a piedi verso Cagliari, al Tora Tora come all’ F.B.I., ai festival reggae come all’Here I Stay: abbiamo ascoltato tutto perché avevamo fame e crediamo che questo percorso non sia stato troppo differente per le altre cricche.

“Una petizione è una poesia e una poesia è una petizione” tratta da The Dreamers di Bertolucci, questa frase si porta dietro tante riflessioni sul ruolo sociale dell’arte. Brigada fa sua questa citazione?
Per quanto ci riguarda, più che altro, crediamo che “il personale è politico, il politico è personale”. Queste riflessioni nascono e derivano da altre esperienze, su tutte il movimento femminista, esortandoci a non separare le due sfere. Cerchiamo quindi di portare la quotidianità e la vita che ci circonda, e quindi la politica, all’interno del circolo e allo stesso tempo di politicizzare quello che nasce, cresce all’interno delle quattro mura di via Molise. Tanti degli artisti che suonano e hanno suonato al circolo hanno firmato l’appello contro l’occupazione militare, altri hanno donato le loro opere per la causa. Opere che proprio in questi giorni sono esposte al circolo per la mostra di A Foras in solidarietà con gli indagati e le indagate del processo Lince: ci sembra che questa sia la migliore risposta a questa domanda.