È tutta scena: Per il quinto appuntamento di “È tutta scena” Marco Cherchi ha incontrato Mattia Mulas, socio fondatore dell’associazione Here i Stay e organizzatore dell’omonimo festival.

Nell’editoriale che ha ispirato questa rubrica, l’autore identifica nella reinterpretazione dell’estetica del live, uno degli elementi più influenti nel processo di emancipazione di una scena: “ai concerti jazz, [nella Londra moderna], ci si va anche per ballare, in felpa e sneakers, senza sentirsi fuori luogo”.
Mattia Mulas definisce così la sua creatura: un luogo per chi non si accontenta del “solito”, dove accettare di proporsi a nuovi ascolti, dove incontrare nuove culture e dimenticare di voler riprendere la strada di casa non appena cala il sipario sul palco.
Tanto vicino, per format e istinto all’internazionalità, a un Ypsigrock, quanto altrettanto distante nella sua volontà di rimanere una tre giorni di festa per non più di un migliaio di persone, in località lontane dal glamour turistico. Here I Stay festival è, da oltre dieci anni, un ponte tra la Sardegna e un territorio musicale rimasto a lungo inesplorato, che ha fatto della lotta all’isolamento culturale e musicale la sua sfida più grande.
Un progetto nato dal basso, dalla commistione di artisti locali, organizzatori e di una generazione non meglio identificata di “vecchi-giovani” musicofili, che spazia dalle campagne di Guspini ai salotti indipendenti e molto pasticciati del capoluogo, mescolatisi negli anni a un parterre che parla con accento veneto, romano, campano, ma anche inglese, tedesco, francese.
Con Mattia abbiamo parlato di quello che è lo spirito della manifestazione e della formula che negli anni ha portato a realizzare un festival indipendente, autofinanziato, internazionale, sostenibile.
Premessa doverosa: non sarà un’altra intervista a tema pandemia, ma una domanda te la dobbiamo fare per forza. Tanti eventi hanno mantenuto la programmazione estiva 2021, voi per il secondo anno vi siete fermati, come mai?
Riteniamo di non poter ripartire proponendo un Here i Stay festival troppo diverso da quello che è sempre stato. A oggi, non ci è possibile ipotizzare di organizzare un evento che abbia le regole del distanziamento sociale. Inoltre, il nostro è un festival internazionale che richiede circa sette mesi di preparativi: a dicembre 2020 non avevamo alcuna certezza su quali band e da quale parte del mondo avremmo potuto invitarle. Ci sarebbe potuto stare un anno in cui passare da una dimensione internazionale del festival a una nazionale e, addirittura, regionale, ma a discapito di snaturarne uno degli aspetti principali, ovvero creare sinergie e scambi tra culture differenti.
In secondo luogo, il nostro è un festival quasi interamente autogestito dal punto di vista economico, solo il 25% dei costi prevede coperture tramite finanziamenti pubblici: le restrizioni di pubblico previste dalle norme ci precludono l’aspettativa di raggiungere la capienza massima in base alla location prescelta e rendere, quindi, economicamente sostenibile l’evento. Se non abbiamo il pubblico, non possiamo avere il festival. Ci sarà, probabilmente, possibilità di realizzare altri concerti, in diversa forma, e già ci stiamo muovendo per quest’estate, ma non l’Here I Stay festival.

Ho letto un’intervista di Andrea Pontiroli del Magnolia di Milano, in cui diceva che la pandemia ha avuto anche risvolti positivi, perché dopo anni di piena attività si è avuta possibilità di limare certi dettagli a livello organizzativo. Due anni di stop forzato rafforzano o mettono a rischio il futuro di un evento come HIS?
Per il discorso fatto in apertura su internazionalità e autogestione, sicuramente ci sentiamo penalizzati. Ogni anno abbiamo lavorato con entusiasmo all’organizzazione del festival e dedichiamo tutto il tempo necessario.
Non sono mancate, tuttavia, questioni che è stato possibile analizzare meglio o sotto una lente diversa, anche aiutati da scambi con altre realtà culturali, accomunate dal trovarsi nella medesima condizione restrittiva: da una situazione di questo tipo si esce uniti e non coltivando ognuno il proprio orticello.
Tirando le somme, però, quanto è successo non ha portato nulla di positivo per quanto riguarda l’organizzazione del festival.
L’HIS è sempre riuscito a tenere una buona affluenza negli anni. È solo senso di comunità o ci sono elementi su cui avete sbattuto la testa e di cui andate orgogliosi?
Il festival è nato dall’iniziativa di un gruppo di circa quindici persone e da un approccio che ha sempre puntato sul parlare al pubblico, cercando di intercettarne i gusti, gli ascolti, per poi capire quali band provare a portare in Sardegna e in quale modo, o su quali generi focalizzarsi perché, magari, non era presente un’offerta su certi segmenti. Tutto questo è stato portato avanti dando ampia possibilità a chi facesse parte del festival di scambiare opinioni con gli organizzatori e anche di consigliare e proporre delle scelte. Questo è lo spirito da cui è partito tutto, un evento partecipato e partecipativo dove la community funge da centro nevralgico.
L’HIS è un evento dai volumi contenuti e dalle dinamiche interne semplici, che quindi richiede anche alle band un approccio coerente a questo tipo di realtà. In questo senso, quando selezioniamo le band cerchiamo di stare attenti a cogliere i giusti segnali, anche dalle risposte alle nostre mail piuttosto che dall’attitudine caratteriale che gli artisti mostrano quando descriviamo loro ciò che chiamiamo festival, ma che per noi rappresenta una festa. Riuscire a mettere in fila questi elementi, portando band che danno qualcosa in più sul palco e che incontrano l’apprezzamento da parte del pubblico, ti fa sentire ripagato dal lavoro svolto e soddisfatto dall’aver fatto qualcosa che ti sembra unico nel modo in cui si è realizzato.

Ho visto una tua intervista su YouTube in cui dicevi che il tuo brainstorming per le lineup dell’HIS si basa anche sull’andare in giro per concerti. Secondo te c’è una componente legata al “capire che pubblico vado a intercettare” o è un aspetto secondario rispetto a una scelta estetica dell’organizzatore? Voi come vi ponete da questo punto di vista?
Abbiamo una lista infinita di band che vorremmo portare al festival. L‘80% delle scelte su cui ricadiamo derivano da scoperte che facciamo di anno in anno, sia direttamente, partecipando come pubblico e suonando in giro per concerti, ma anche indirettamente, come driver o manager per altri gruppi. Sono queste le occasioni migliori per capire se le band che hai davanti sono adatte per il tuo festival. Il pubblico del festival accetta spesso di trovarsi di fronte ad ascolti a cui, probabilmente, non è abituato, ed è aperto a qualsiasi tipo di proposta, con tutti i pro e contro del caso, comprese anche eventuali critiche. Fa parte del gioco e ne siamo ben felici: se così non fosse, non ci staremmo a far nulla.
L’HIS, è ancor prima che evento, etichetta discografica. Dopo anni molto prolifici (2006-2011) l’attività si è concentrata maggiormente sull’organizzazione del festival. A che punto sono le attività dell’etichetta?
L’etichetta è ferma dal 2014. Con il passaggio al digitale, abbiamo perso l’entusiasmo nel produrre musica: siamo sempre stati molto legati al supporto fisico e all’idea che le band, per vendere i dischi, dovessero andare in giro a suonare e farsi conoscere. Per noi l’aspetto più bello del produrre musica era proprio la parte promozionale, nel senso della possibilità di realizzare il maggior numero di live. Tutto questo rientrava nella filosofia che, successivamente, ha animato anche lo spirito del festival: il nostro intento era produrre band che andassero in giro per l’Europa, offrendo loro la possibilità di confrontarsi con diverse realtà, portandoci le loro impressioni. Questo, spesso, ci portava anche a viaggiare con le stesse band, un pretesto – se vogliamo – per andare in giro e conoscere nuova gente e nuove scene. Negli anni successivi, sia per vicissitudini delle band che potevano viaggiare sempre meno e, di conseguenza, per correlate questioni economiche, non è stato possibile dare continuità al progetto.
Con il digitale, poi, ci divertivamo sicuramente meno: nulla in contrario, ovviamente, verso chi sceglie tuttora di percorrere questa strada. Ma non faceva per noi, nati e cresciuti con la filosofia del “do it yourself”. Trovavamo soddisfazione dal ritrovarci attorno a un tavolo a produrre e assemblare vinili, cd, dal vedere arrivare i materiali. Era un momento di festa anche quello.

Dell’edizione 2017 dell’HIS, mi colpì molto un aneddoto: parlando con qualcuno mi disse che un suo amico era arrivato dagli States in Sardegna per vedere la data dei Liars. Effettivamente, in tanti abbiamo avuto la percezione che fosse un passo importante verso un livello ancora più internazionale del festival. Liars 2017, Soft Moon 2018, A place to bury strangers 2019. Si stava (e si sta) prendendo realmente quella direzione? Siete pronti per farlo e secondo voi le istituzioni del territorio stanno dando la giusta risposta nel cogliere questa opportunità?
Abbiamo sempre cercato questo approccio, fin dai primi anni, come nel 2010, con gli Oneida, una delle band newyorkesi sperimentali più importanti della scena. Coinvolgere band di questo calibro per noi era inimmaginabile e ci siamo riusciti in occasioni nate al di fuori dell’invito al festival, conoscendo di persona i componenti di queste band. Lo stesso accadde, ad esempio, con i Meridian Brothers, Zombie Zombie, Duds, Debruit e tanti altri.
La questione non è tanto l’“esser pronti”, ma piuttosto capire quale potrebbe essere il supporto del pubblico, ancor prima della valutazione del supporto da parte delle istituzioni locali: è possibile chiedere e ottenere un finanziamento più cospicuo, ma cercare di organizzare un festival con nomi blasonati e con spazi maggiori, significa far evolvere il festival verso una forma diversa da quella solitamente proposta, e questo non è nelle nostre corde. Vorremmo che HIS rimanesse un festival per un migliaio di persone, dove la gente possa guardarsi attorno e non perdersi di vista all’interno di una platea sterminata. Siamo più interessati a creare una festa in cui le persone possano parlare tra di loro piuttosto che creare concerti in cui, una volta finito lo spettacolo, ognuno torni a casa.
Le istituzioni ci hanno dato una mano nel complesso, ma non sempre: a Fordongianus, location che ci ospita dal 2016, abbiamo incontrato una giunta culturalmente molto aperta, riuscendo a instaurare un rapporto di scambio da cui ha beneficiato anche il festival che negli anni è cresciuto in maniera importante. Il supporto degli enti locali è sicuramente fondamentale, ma poi è soltanto il pubblico a muovere le scelte.
È questa la questione su cui vertono i nostri ragionamenti quando ci troviamo a organizzare il festival: abbiamo capito che le cose si possono fare senza i finanziamenti, se c’è il pubblico. Chiaramente, con i finanziamenti si può puntare a lineup di più alto livello, ma non è l’obiettivo principale. L’obiettivo è organizzare una festa in cui le persone parlino tra loro, con le band, con gli organizzatori, possibilmente abbracciandosi.

Anno della pandemia, un intero comparto in ginocchio, una fase storica mai vista: una delle prime risposte della Regione è stato il click day per l’assegnazione del programma di spesa 2021. Quale è stata la tua reazione?
Siamo rimasti senza parole, da organizzatori abbiamo deciso di non partecipare, non ci sembra un’iniziativa giusta nei confronti di chi svolge il nostro mestiere. Se le regole del gioco sono queste, allora scegliamo spontaneamente di non giocare. Parliamo di regole inaccettabili che sviliscono il lavoro delle persone e il contributo che queste apportano al territorio, anche in termini di ricaduta economica. Si sottovaluta il fatto che gli eventi non sono solo frutto di pochi mesi di lavoro, ma a volte anche di vent’anni di programmazione e impegno.

Come Here I Stay siete stati anche i pionieri di un certo tipo di marketing degli eventi ben targetizzato, eventi fortemente identitari e accattivanti, a partire dal logo, passando poi dalle location, dalla community, dalle iniziative sociali (plastic free). Tutto è sempre stato studiato nel dettaglio, ma sempre con un approccio minimal e molto professionale, e alcuni hanno seguito la linea (penso al Du di Bauladu). Quanto questa forma di management degli eventi che avete applicato in HIS, è presente oggi in Sardegna a tuo avviso? E secondo te può avere un ruolo nel destagionalizzare l’offerta musicale (come avete fatto voi con il Christmas party)?
Ci sono tutti i presupposti per destagionalizzare l’offerta, proponendo eventi anche nei mesi pre e post estivi, con eventi rivolti a specifici target: ad esempio, penso al pubblico tedesco, per il quale i mesi primaverili valgono quanto quelli estivi. Il tema da affrontare è la possibilità di attirare un pubblico fuori dall’isola e, soprattutto, fuori dall’Italia. Entrare in modo strutturato nei circuiti internazionali, non solo di band e lineup, ma anche di pubblico, sarebbe la vittoria più grande per l’Isola.
Un turismo musicale in Sardegna è sicuramente possibile, sia per la professionalità degli organizzatori, che per l’attuale offerta disponibile, dimostrata da numerosi festival che vengono organizzati ormai da più di dieci anni. La Regione e le istituzioni, sono davanti alla scelta di investire maggiori risorse per far conoscere non solo l’Isola, ma anche le cose che vengono fatte tra i suoi confini.
Nel nostro piccolo noi ci proviamo, ma con mezzi molto limitati come il passaparola, o andando a scovare le scene, in Germania, in Inghilterra, in Francia, cercando di spiegare ai nostri interlocutori quello che facciamo in Sardegna. Ma, per ovvi motivi, non abbiamo un potere di fuoco significativo sulla promozione del festival, non possiamo investire in pubblicità e marketing le cifre necessarie per attirare pubblico destagionalizzando l’offerta.
La sfida a cui puntare per il futuro, come Isola, è proprio questa.

Ultima domanda a tema libero, per messaggi, dichiarazioni e saluti.
Speriamo di poter tornare presto a quella realtà dell’Here I Stay che conosciamo, dato che abbiamo imparato a non dare nulla per scontato.
Speriamo di poterne parlare l’anno prossimo sotto al palco. E che sia un palco alto e grande. Questo è l’auspicio che abbiamo tutti.