Luigi Frassetto è un musicista e compositore Sassarese classe 1980. Dopo un inizio di carriera dedicato al punk con i Rodeo Clown, ha diversificato la sua attività artistica mettendo a frutto i suoi studi e dedicandosi alle colonne sonore. Oltre a essere l’autore di due dischi, “The RJ Sessions” e “33 e ⅓”, e delle musiche di diversi lungometraggi e cortometraggi, è l’organizzatore del “Billellera Festival”, del “Club del Disco” e di altri progetti molto interessanti. Lo abbiamo raggiunto per una lunga chiacchierata sul suo percorso e sulle prospettive della musica sarda.
Da anni sei coinvolto nella vita musicale sarda in vari ruoli, dalle band punk alle colonne sonore, passando per Londra e per il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Da quando è che hai iniziato a interessarti alla musica e com’è stato il tuo percorso artistico?
La mia vita è sempre stata votata alla musica fin dai primi anni di età nonostante in famiglia ci fosse poca attenzione alla materia, credo perciò che questa mia attitudine sia un qualcosa di profondamente innato. Ho iniziato presto anche a sviluppare una certa attrazione per il possesso dell’oggetto in sé: avere fra le mani un disco in vinile o una cassetta era per me esaltante. Dopo aver ascoltato molto cantautorato italiano, l’illuminazione è arrivata coi Ramones, i quali hanno ispirato in me una certa urgenza di esibirmi e comunicare, con un messaggio per me molto chiaro: impara le cose mentre le stai facendo. Il punk è per me una vera e propria scuola d’arte dove appunto impari a fare le cose da te, un atteggiamento che ancora oggi mi guida in tutto quello che faccio.
Per 17 anni ho fatto parte dei Rodeo Clown (punk band sassarese, ndr), provavamo praticamente tutti i giorni e avevamo un repertorio sterminato che ci consentiva di suonare per ore senza mai ripetere una canzone. Parallelamente alla mia passione per la musica si è sviluppata quella per il cinema. La decisione immediatamente successiva è stata quella di impegnarmi maggiormente frequentando il SAE (School of Audio Engineering), prima a Milano e poi a Londra nel 2007.
È stato proprio nella capitale inglese che ho iniziato a frequentare circoli di cinefili dove alcuni registi underground presentavano i loro cortometraggi. Lì ho iniziato a lavorare seriamente sulle colonne sonore, una cosa in cui la mia formazione punk è servita paradossalmente tantissimo. Successivamente ho potuto frequentare dei corsi di musica per cinema al Conservatorio di Cagliari e al Centro Sperimentale di Cinematografia. Adesso studio composizione al conservatorio dopo essermi pentito di aver interrotto gli studi di chitarra classica che avevo iniziato da bambino.
Come nasce un colonna sonora? Ci potresti parlare del processo lavorativo che c’è dietro a partire dall’incontro con il/la regista? Il tuo disco “33 e ⅓” esplora gli spazi in comune fra musica e immagine, e pare che la tua produzione artistica rifletta questa sorta di ricerca, dato che hai composto parecchie colonne sonore di corti e lungometraggi come a esempio quella per “I Giganti” di Bonifacio Angius.
I brani che compongono “33 e ⅓” provengono in gran parte dalle composizioni che ho elaborato per alcuni cortometraggi a cui ho lavorato durante la mia esperienza londinese, con in aggiunta alcune musiche partorite in sala prove col Luigi Frassetto Quartet composto con Gianni Lubinu, Lorenzo Falzoi e Marco Testoni, che mi aveva accompagnato anche durante le registrazioni del mio primo EP, “The RJ Sessions”. In un primo momento suonava con noi anche Giuseppe Bulla, Edoardo Meledina ha successivamente preso il posto di Gianni Lubinu.
Solitamente, se un regista decide di affidarsi a me per la colonna sonora di una pellicola, mi consegna un montaggio con delle temporary tracks che danno delle indicazioni sulla atmosfera che ci dovrebbe essere in quel momento. A volte può essere complicato capire le richieste del regista: se non sei una persona che ama il cinema diventa complesso se non impossibile. Serve spesso essere dotati di un pochino di manierismo, di volontà di scendere a compromessi e soprattutto di quello che potremmo chiamare un solido artigianato musicale.
Il tuo lavoro di organizzatore di eventi è molto apprezzato: il Club del Disco è una realtà consolidata nella vita culturale sassarese ormai. Credo sia un formato molto interessante, anche perché permette di parlare di musica in maniera approfondita, scambiare opinioni e arricchire esperienze di ascolto che rischiano di rimanere troppo superficiali. Come è nata questa idea e quanto può essere soddisfacente a livello personale portarla avanti?
Il Club Del Disco nasce dall’esigenza di dare il giusto spazio all’ascolto profondo della musica. A parer mio viviamo un’era dove la vista è il senso nettamente più utilizzato, spesso a scapito dell’udito. Si è perso insomma il gusto dell’ascolto come unica attività: basti pensare che prima in ogni casa l’impianto stereo aveva sempre un suo posto rilevante nell’arredamento di una casa. Ormai invece le innovazioni tecnologiche, soprattutto internet e lo smartphone, lo hanno fatto diventare un orpello. Ne deriva il fatto che si fanno esperienze di ascolto qualitativamente scarse, cosa che rende più difficile a mio parere anche che un suono possa evocare emozioni.
Il Club del Disco vuole quindi principalmente favorire un ascolto immersivo, eliminando qualsiasi tipo di distrazione, in particolare lo smartphone, che ti porta quasi ad avere un gesto meccanico nel consultarlo, una cosa sovrapponibile al fumatore che si accende una sigaretta. Un’altra cosa interessante è la Domenica Vinilica, che organizzo all’Abetone a Sassari, dove chiunque può partecipare portando i propri dischi da casa sua. La trovo un’esperienza molto arricchente che mi ha permesso di entrare in contatto con ragazzi e ragazze più giovani di me e con i quali si è avviato uno scambio molto interessante. Ma poi, vogliamo mettere l’oggetto rappresentato dal vinile? Una confezione grande, dove attingere praticamente a qualsiasi informazione sul disco, partendo dai testi per arrivare al singolo tecnico dello studio di registrazione.
Sei anche il curatore del Billellera Festival che quest’anno si è arricchito pure di un contest molto interessante, un appuntamento che ormai credo in molti si aspettino ogni anno. Cosa ti ha portato a organizzare un avvenimento del genere, e quali sono i tuoi obiettivi?
La famiglia di mio padre ha origine proprio a Sorso, dove mio nonno e le sue sorelle hanno vissuto. È un luogo a cui sono molto legato, ci ho passato tutte le estati da bambino e poi, più recentemente, ci ho vissuto per due anni con la mia compagna. Tutta l’idea del festival nasce dal fatto che il sindaco di Sorso un giorno ha visto per caso una mia intervista in cui ero in paese e ha pensato di chiamarmi per chiedermi di organizzare qualcosa. Per me è stato come un invito a nozze, ed è stato molto bello organizzare qualcosa in un luogo che per me è importante e che ho mitizzato.
Ovviamente il nome del festival era impossibile che fosse diverso da quello che ho scelto, essendo la fontana della Billellera unanimemente riconosciuta come il simbolo di Sorso. Organizzare questo festival mi ha permesso di applicare un concetto a cui tengo molto: non esistono differenze di valore fra musiche diverse. Mi piace infatti che nel programma della stessa giornata ci possa essere prima un’orchestra d’archi e immediatamente dopo un artista che si occupa di elettronica. Mi piace il fatto che si possano portare alle orecchie della gente cose che mai avrebbero pensato di ascoltare e che magari possono piacere.
Altro progetto che porto avanti è La Scatola: una trasmissione che conduco su Radio del Golfo che mi permette di trasmettere un pot-pourri di musiche diverse, esattamente nello spirito del punk e del Billellera, e nel mentre di parlare della scena locale e di alcune tematiche che mi stanno a cuore. Così peraltro esaudisco il mio sogno di bambino, quando giocavo alla radio con le mie musicassette.
Quest’anno in Sardegna ci sono stati festival estivi di ogni genere, apparentemente sembra palpabile una grande esigenza di musica e di stare assieme, specie nel periodo successivo al covid. A volte gli eventi si sono perfino sovrapposti, anche nello stesso luogo, mettendo il fruitore di tali eventi nella delicata situazione di dover scegliere a quale evento partecipare. Credi a tal proposito che dovrebbe esserci un maggior dialogo fra chi organizza eventi?
Il leggendario detto “pocos, locos y mal unidos” è purtroppo ancora valido. C’è ancora tanto lavoro da fare, che però credo si farà, perché ci sono molte nuove realtà virtuose che fanno ben sperare. Penso che molti, purtroppo, considerino ancora di organizzare i festival solo nel periodo in cui la Sardegna è piena di turisti, cioè la stagione estiva, così che l’anno si divide in due parti: una più lunga di relativo “vuoto”, l’altra più breve di sovrapposizioni e saturazione di eventi.
Nell’estate 2023 si è forse raggiunto il picco di questo problema che, alla fine, ha accontentato ma anche scontentato molti, sia tra gli organizzatori che tra il pubblico. D’altra parte è molto difficile pensare ad eventi di grosso richiamo nel periodo autunno/inverno, quando gli aeroporti diventano deserti e il numero di tratte da e per la Sardegna si riduce drasticamente.
Ad esempio una grande iniziativa come Autunno In Barbagia si riduce ad attrattiva unicamente locale, quando potrebbe invece essere molto affascinante per turisti della penisola e stranieri. Turisti che in quel periodo non ci sono e forse non ci possono essere, per come stanno le cose in questo momento. Insomma anche le istituzioni e la politica dovrebbero fare molto in questo senso.
In generale come giudichi la Scena musicale sarda?
Parlo per Sassari. Io sono cresciuto in tempi in cui la realtà musicale era molto fiorente, anche se me ne accorgo solo in retrospettiva. Parlo soprattutto della scena “underground”, che era proprio letteralmente sottoterra, perché le sale prove in scantinati più o meno fatiscenti non si contavano. Tutto quel pullulare di “formiche” aveva poi molte occasioni di sfogarsi all’esterno: tantissimi locali dove suonare, a Sassari e negli altri paesi, e iniziative comunali come La Giornata dell’Arte e simili. Ora l’educazione musicale è passata dal nostro “fai da te” a una situazione più istituzionalizzata, con una grande offerta di corsi fra scuole e Conservatorio, il quale è sempre più ricco e vario, e questo non può che essere un bene. Però le occasioni per esibirsi? Molte meno, forse.
Per quello che posso vedere io, la classica è quella che si sta espandendo di più, sia con i concerti in Conservatorio, sia per grosso merito di associazioni come il Progetto Enarmonia, a cui va il mio plauso. Le musiche “altre” mi sembrano in sofferenza. Per questo io metterei una pietra miliare all’Abetone e al Baretto di Porto Ferro, e soprattutto darei una medaglia d’oro ad Alex dell’omonimo bar di Ossi. Sono gli ultimi “avamposti del rumore” che mi vengano in mente, che continuano a proporre una programmazione di un certo tipo in modo continuativo. Spero che ne sorgano presto altri, ce n’è tanto bisogno, anche perché un ragazzo, per iniziare a fare sogni di musica, deve vedere esempi in carne e ossa intorno a sé, non solo su uno schermo.