DJ radiofonico, giornalista, conduttore televisivo, saggista, ma soprattutto appassionato esperto, Giacomo Serreli da sempre segue le vicissitudini musicali all’interno dei confini isolani. Dagli esordi nelle prime radio libere cagliaritane sono passati ormai più di 45 anni e oggi la sua figura è unanimemente riconosciuta come una delle più autorevoli e rispettate in campo musicale, attestazione confermata tanto dalle sue presenze come animatore e promotore culturale all’interno di dibattiti ed eventi, quanto dalle sue innumerevoli pubblicazioni sul tema, come l’enciclopedico Boghes e Sonos uscito lo scorso anno, e l’ultimissimo Dropout Music, che ne ripercorre la carriera in radio. Senza dubbio un interlocutore ideale per il nostro ciclo di interviste “È tutta scena”: lo abbiamo raggiunto per parlare di radio, televisione, giornali, comunicazione musicale e, soprattutto, per avere la sua opinione ‒ in qualità di osservatore attento e privilegiato ‒ sull’attuale stato di salute della scena isolana.
Giacomo, tu segui la scena musicale sarda da ormai 45 anni, da quando hai iniziato a fare il dj radiofonico a Radio Brasilia alla fine del ‘75, con la trasmissione “Dropout Music”, che dà anche il titolo al tuo ultimo libro, di cui parleremo più avanti. Quello delle radio sembra un ruolo passato un po’ in secondo piano in tempi recenti, se si parla di divulgazione di musica local. Che idea ti sei fatto a riguardo? Come è cambiato il ruolo delle radio nel far conoscere la scena musicale regionale agli ascoltatori?
L’impressione che si ricava è che oggi il palinsesto delle emittenti, anche a connotazione regionale, sia ormai blindato dalle esigenze del mercato discografico e che i contenuti vengano stabiliti, persino nel minutaggio dei brani, da indicazioni che arrivano dall’alto lasciando pochi margini di libertà a una programmazione meno condizionata e più aperta a quelli che sono i fermenti che agitano la scena musicale isolana. Salvo rare eccezioni, insomma, mi pare che ci sia ancora da lavorare per recuperare soprattutto sensibilità e attenzione sulla musica che ci gira attorno, quella che nasce e si sviluppa dalla creatività dei nostri artisti.
Di come il fenomeno delle radio libere abbia preso piede in Sardegna ne parli approfonditamente nella tua ultima pubblicazione “Dropout Music”. Qui racconti anche dei tuoi tentativi di portare in televisione, a Videolina, la musica prodotta in Sardegna, in particolare di “Sonora”, che tu descrivi come «una sorta di trasposizione televisiva delle mie ricerche che avevano portato alla pubblicazione di “Sardegna Rock” prima e “Boghes e sonos” poi». Quali furono i suoi dati di ascolto all’epoca, a cavallo tra 2008 e 2009, quindi nemmeno tanti anni fa?
Onestamente, forse perché è un elemento che non ha mai ricevuto una mia particolare attenzione, non so che ascolti avessero avuto le otto puntate di “Sonora” che registrammo all’FBI di Quartu e andavano in onda il venerdì alle 21 per due ore. Posso dire che fu però una scelta coraggiosa dell’emittente, che volle diversificare l’offerta della programmazione musicale all’epoca saldamente ancorata solo su folklore e tradizione popolare, con un format peraltro di larghissimo seguito come “Sardegna canta”.
Di fatto “Sonora” si trasformò in un contenitore divulgativo che non solo fotografava le diverse espressioni della musica realizzata, in ambiti diversi, da artisti sardi di quel periodo, escludendo appunto quelli tradizionali o dell’area colta. Cercava anche di tracciare un quadro dello sviluppo della produzione musicale isolana dagli anni sessanta coinvolgendo protagonisti e testimoni diretti. Ecco perché, in qualche modo, trasferii in quel programma contenuti e filosofia della mia ricerca che aveva prodotto il libro “Boghes e sonos”. Il valore aggiunto era rappresentato anche dal fatto che gli artisti poi si esibivano dal vivo, senza ricorrere a basi preregistrate, con minuziose sedute per il soundcheck prima della registrazione.
Pensi che una trasmissione come quella possa trovare spazio negli attuali palinsesti?
Il format credo non sia affatto superato, ma oggi la logica della produzione televisiva in musica è tutta improntata sui talent, sui contest, sulla gara, senza che ci si soffermi con più attenzione e una più profonda analisi sul contesto complessivo del fare musica oggi anche nell’isola.
Fino a che punto pensi che debbano ‒ e possano ‒ spingersi i media generalisti regionali in questo senso? Pensi che abbiano un pubblico che possa legittimare uno sforzo maggiore?
I media generalisti inseguono i trend informativi di maggiore appeal e impatto tra i loro utenti. Tutto questo finisce spesso per soffocare e magari bloccare sul nascere anche quei tentativi che cercano di dare conto e visibilità a una realtà culturale a torto considerata periferica e che matura dietro il nostro angolo di casa.
Nella tua carriera hai anche partecipato attivamente a diversi festival in questi 45 anni, sia come direttore artistico sia come presentatore, cosa che ti ha permesso di entrare in diretto contatto con le varie realtà sociali e culturali che portano avanti certe manifestazioni nel tempo. Come hai visto evolversi quel mondo in questi anni?
Quando a Sedilo nel 1993, con altri amici mettemmo in piedi Ichnos, realizzammo un qualcosa di inedito per l’isola: offrimmo la possibilità a tanti artisti di ritrovarsi, confrontarsi e, insieme, fare il punto su cosa significasse creare e produrre musica in Sardegna. Forse non a caso da quell’evento prese in qualche modo corpo il progetto “A cuncordu” che, seppur per un breve periodo, riuniva insieme Piero Marras, i Tazenda, i Cordas et Cannas e il tenore Remunnu e’ Locu di Bitti, cioè alcune delle espressioni più rappresentative del nostro patrimonio musicale.
Non solo; Ichnos ha voluto dare piena legittimità e visibilità alle proposte isolane, innescando credo un circuito fruttuoso che cancellasse la loro marginalità e il loro, fino ad allora, scarso coinvolgimento in contesti ampi e prestigiosi, quali le diverse rassegne e festival che sono seguite o sono nate sulla spinta dell’evento sedilese. Insomma mi pare che sia cresciuta l’attenzione per la realtà sarda in modo da ritagliarsi uno spazio in eventi spesso di respiro internazionale, senza che essa rappresentasse un puro riempitivo del cartellone.
Questo ti ha anche permesso di entrare in contatto con tantissimi musicisti e di vedere avvicendarsi diverse generazioni, anagrafiche e musicali. Tutto testimoniato anche nell’opera “Boghes e sonos – 60 anni di musica sarda 1960-2020”, uscita nel 2020 grazie alla Fondazione Maria Carta. Hai già tracciato un bilancio di questa attività, che in realtà porti avanti nel tempo da tanti anni e quest’ultima pubblicazione non è altro che l’ultimo aggiornamento di “Sardegna Rock”, pubblicazione uscita per la prima volta nel 1991?
Quello che intrapresi nel 1990, tramite contatti diretti e personali con i vari musicisti, per ricostruire la scena sarda dagli anni sessanta, sfociato in “Sardegna rock”, edito nella primavera del 1991, si è rivelato un vero e proprio work in progress. Negli anni ho sentito la necessità di aggiornare e implementare ulteriormente quella sorta di anagrafe musicale isolana, perché molte cose sono accadute. Molti nuovi modi di proporsi in musica sono maturati tra gli artisti e molti altri talenti sono emersi, come pure le cifre stilistiche originali e personali che hanno caratterizzato i diversi lavori. Si è molto allargata anche l’offerta della musica attraverso concerti, festival, rassegne e, ovviamente, il web, che pur non escludevano totalmente la realtà isolana.
L’ultima stesura di “Boghes e sonos” in tre volumi con 1750 schede, ha per questo un aspetto onnivoro, ma non ancora del tutto esaustivo, perché il fermento nel fare musica tra i sardi non conosce rallentamenti. Il suo voler essere fondamentalmente un manuale da consultare, credo però rappresenti un corposo e orientato punto di partenza.
Oltre alla Fondazione Maria Carta hai anche collaborato con l’Archivio Mario Cervo. Entrambe queste realtà sono delle vere e proprie istituzioni nella nostra isola per quanto riguarda la memoria storica in ambito musicale, forse le uniche due veramente solide e strutturate, economicamente e culturalmente. Entrambe sono però focalizzate sul repertorio per così dire storico e tradizionale, e anche gli inserimenti nel contemporaneo tendono a privilegiare quella sfera. Non credi che questa sia una carenza importante e che, invece, l’attuale musica alternativa vada seguita e valorizzata tanto quanto il “pregresso”?
La Fondazione Maria Carta ha tra i suoi compiti statutari lo sforzo per una valorizzazione e divulgazione della musica della Sardegna, partendo certo da un osservatorio privilegiato che è quello che si richiama alla tradizione e sua elaborazione dove è cresciuta l’opera dell’artista di Siligo. Ma negli anni credo abbia dimostrato pienamente una capacità di guardare oltre, allargare i suoi orizzonti prestando attenzione anche ai nuovi percorsi maturati nella scena musicale sarda. Basta guardare l’albo d’oro del Premio Maria Carta che nel 2022 celebrerà il suo ventennale, per trovarvi nomi come quelli di Francesco Piu, Train To Roots, Joe Perrino. O anche tener conto dei contenuti proposti in Freemmos, altra rassegna nata su iniziativa della Fondazione.
Analogamente credo che l’Archivio Mario Cervo stia svolgendo un ruolo fondamentale per documentare il presente della scena sarda e l’encomiabile iniziativa dell’omonimo Premio Discografico ne sia una prova lampante.
Eppure da anni, molti più di quanto si creda, viene operata da parte di molti musicisti un’interessante rivisitazione in chiave contemporanea anche del repertorio tradizionale. Spesso anche da musicisti molto meno noti di altri, ai quali invece si tende a dare molto più risalto da parte dei media. È una dinamica nota e per certi versi comprensibile a livello comunicativo e mediatico. Ma non credi che, in fondo, non sia così difficile invertirla in qualche modo?
Nell’effettuare le mie ricerche sono andato anch’io scoprendo tantissimi esempi di artisti che, pur provenienti da una formazione spesso agli antipodi rispetto al repertorio tradizionale, hanno maturato interessanti e innovativi progetti, talvolta arditi perché immessi in moduli espressivi assolutamente inediti, per una sua rivisitazione. Per quanto la rete offra qualche opportunità in più, troppi restano sottotraccia e non trovano la visibilità che meriterebbero. Bisognerebbe fare appello insomma anche alla sensibilità di quanti operano nei media o promuovono e organizzano festival e rassegne, perché questi sforzi ricevano la dovuta attenzione.
Anche l’attività giornalistica pecca un po’ della stessa disattenzione all’attuale. Credi sia più una mancanza dei media o uno scarso interesse da parte del (loro) pubblico? O un mix letale di entrambe le cose, che in fondo si alimentano in un circolo viziato e vizioso?
Ormai si dice – ma non siamo lontani dalla realtà – che il giornalismo è sempre più fatto stando seduti al computer, subendo l’ondata di informazioni, o presunte tali, che arrivano dai social e dalla rete. C’è un sempre più scarso coinvolgimento diretto della categoria nell’inseguimento e nella documentazione della notizia là dove matura. E così, anche per molti giovani, quest’era pandemica sembra avere accentuato una sorta di pigrizia di fondo, per cui la musica la si consuma preferibilmente nella liquidità delle piattaforme in rete piuttosto che nell’intensità di un evento live.
Questi due fenomeni hanno forse determinato davvero una scarsa attenzione verso l’attualità della scena musicale anche isolana. Dettano legge ancora certi indirizzi che arrivano dal mondo discografico più organizzato e potente e la logica dei numeri stabiliti dai “mi piace” o dai “clic”. Anche l’informazione musicale dalle nostre parti è così ingabbiata.
Tu sei, da sempre, anche un conoscitore della scena internazionale. Cosa ti sentiresti di consigliare a chi fa musica oggi in Sardegna, per provare con più convinzione a saltare il mare?
Quello che mi sento di consigliare è di coltivare un po’ di autostima, di avere più consapevolezza delle proprie capacità e del proprio estro creativo. È un po’ quello che ho riscontrato parlando con i tanti giovani musicisti sardi che il mare lo hanno già varcato e che ho incontrato a Berlino come a Barcellona, a Londra come negli Stati Uniti. Possono, del resto, tutti contare sulle solide fonti ispirative che arrivano anche dal nostro originale e particolare patrimonio etnomusicale, che non va vissuto come statico reperto museale.
Infine raccontaci un po’ a cosa stai lavorando ultimamente.
Ormai l’impegno con la Fondazione Maria Carta si è esteso a tutto l’anno per il gran numero di iniziative in cui operiamo direttamente o veniamo coinvolti. Non ci si limita insomma al solo Premio che si tiene a settembre. Perciò anche in questo periodo sono in cantiere alcune iniziative con la Fondazione, finalizzate alla divulgazione e promozione della nostra musica e dei suoi artisti specie fuori dall’isola. Restano poi i miei impegni con le produzioni televisive per Videolina, in particolare in questa fase un nuovo ciclo di “40° Parallelo” sulla storia della Sardegna.
Ma tengo viva la voglia di scrivere e in qualche modo di provare a raccontarmi. “Dropout music”, il libro che racconta la mia esperienza professionale a contatto con la musica, dovrebbe avere, spero ai primi mesi del prossimo anno, un seguito in cui racconto i miei 45 anni di attività giornalistica, spesa in particolare in TV. Insomma continua a essere, per mia fortuna, un “pensionamento” particolarmente attivo!