È tutta scena - Diego Pani - Elena Cabitza - intervista - Simone La Croce - 2021 - Sa Scena - 31 dicembre 2021

È tutta scena! – Intervista a Diego Pani

Simone La CroceÈ tutta scena!, Interviste

È tutta scena chiude il 2021 con l’intervista a , confermando il suo proposito iniziale di far parlare i personaggi che, al di là della musica suonata e grazie al loro impegno, creano e tengono in vita nuovi progetti, connessioni e sinergie. Diego, dopo gli esordi in giovane età come autore, cantante e armonicista, strada ne ha fatta parecchia. Pur non interrompendo mai la sua attività di musicista, nel tempo, tra le varie cose, è diventato ricercatore, etnomusicologo, ha messo in piedi il festival Vulcani e ha fondato l’etichetta , scoprendo e rilanciando progetti sempre interessanti. Lo abbiamo incontrato per fargli qualche domanda.

Ciao Diego, proviamo un po’ ad approfondire le tue varie attività in ambito musicale, oltre quella di musicista vero e proprio, che ti vede autore, cantante e armonicista ne La Città di Notte e nei King Howl. Partiamo da Talk About Records, l’etichetta che hai fondato nel 2008. Avete iniziato dal blues e dal RnR (The Giannies. King Howl, River Of Gennargentu, Don Leone, Bad Blues Quartet) ma siete anche arrivati a produrre alcuni dei migliori sperimentatori degli ultimi anni, tra cui SARRAM e Angus Bit. Come arrivate a individuare i musicisti e in base a cosa li scegliete per l’etichetta?

Sicuramente il criterio principale di scelta degli artisti dì Talk About é il nostro gusto personale. La label continua ad avere una fortissima connotazione Blues/Rock’n’Roll, ma non ho mai visto questa direzione come “esclusiva”. Io ascolto e mi innamoro di musiche molto differenti tra loro, e mi sembra assurdo non poter utilizzare Talk About Records come piattaforma per investire e promuovere musiche che mi piacciono, a discapito di una “definita” direzione stilistica. Allo stesso tempo, c’è qualcosa che lega progetti come SARRAM e Angus Bit al suono dell’etichetta: nel primo caso l’elemento centrale è un forte rimando al paesaggio sonoro sardo, mentre per Angus il trait d’union è invece il suo amore per la grande tradizione musicale afroamericana, che richiama in continuazione. 

Su tutto, però, rimangono i rapporti personali. Il rapporto di stima e amicizia, per esempio con Valo (SARRAM) e Nicolò (Angus Bit), i discorsi sulla Musica, l’interesse nella cultura e nell’arte della performance musicale. Questo è un discorso che vale per tutti gli artisti Talk About o almeno per quelli con cui c’è una collaborazione duratura. 

Talk About Records

Oggi il lavoro delle etichette è estremamente variegato, nel senso che possono arrivare ad occuparsi di tutti gli aspetti del processo di produzione musicale, o concentrarsi solamente su alcuni di essi. Il lavoro che fate in Talk About, in cosa consiste esattamente? E in che modo è così DIY come vi piace presentarla?

Talk About Records si occupa prevalentemente di produzione esecutiva di dischi e organizzazione di eventi dal vivo, siano questi festival o tour. Nella produzione di un disco, non ci occupiamo quasi mai di direzione artistica, ma semplicemente lavoriamo con gli artisti all’uscita del disco, dalla scelta del supporto a quella sui canali di promozione e distribuzione. Investiamo su un disco soprattutto tramite il nostro lavoro. 

In occasione invece dei concerti e dei festival, l’approccio è quello della direzione artistico-tecnica, della pianificazione dell’evento e, soprattutto, della scelta degli artisti. 

In tutti e due i casi, però, dobbiamo tornare a quanto detto prima. Il rapporto con gli artisti (siano questi legati a produzioni discografiche o più semplicemente a ingaggi per un concerto) è ciò che definisce sempre la collaborazione. Così io posso investire il mio tempo su un disco che mi piace e, allo stesso modo, un artista può sposare un mio evento e volerne essere parte attiva. 

La risposta sul perché DIY penso sia contenuta nelle righe qua sopra. Per me il concetto di DO IT YOURSELF è estremamente legato a un’urgenza espressiva, alla voglia di dare alla luce dei lavori che fremono di questa urgenza, e farlo con strumenti miei, con quello che ho, basandomi sull’etica di lavoro condiviso con l’artista, appunto. Questo si traduce in quasi sempre in un sacco di roba da fare, pochissime risorse economiche a disposizione, ma un obiettivo comune tra me e chi ha prodotto quella musica. L’artigianalità del fare tutto quello che si può “in casa” (spesso anche in relazione alla stampa stessa dei dischi) è legato a quella velocità e urgenza (senza compromessi) che ci ha insegnato la musica punk e il movimento hardcore punk, una lezione che, non fatico a dirlo, mi ha cambiato la vita. 

Avete privilegiato tanto i formati fisici quanto quelli digitali. Secondo la vostra esperienza, quali sono i meriti e i pregi di uno, e quali quelli dell’altro?

I formati digitali sono stati fondamentali per Talk About Records. Ci hanno permesso di tirare fuori dischi nuovi anche avendo pochissimo budget a disposizione. Grazie a BandCamp siamo arrivati in tutto il mondo, e tuttora abbiamo richieste dalle nazioni più disparate grazie a quel medium, a quel nostro posticino sul web dove tutti possono arrivare alla nostra musica. La vera rivoluzione della musica digitale (che cosa vecchia ormai!) è aver permesso agli artisti di avere un amplificatore sul mondo intero. 

Oltre Bandcamp, Talk About Records ha un contratto di distribuzione digitale con Believe, che ci aiuta a portare tutte le nostre produzioni sugli stores e le piattaforme di streaming. Non posso dire certo di essere contento dei guadagni che derivano da Spotify, Apple Music o simili, ma in questo caso comunque il gioco vale la candela: esserci si traduce in ascolti da tutto il mondo e quindi una promozione per gli artisti (e la label) molto più capillare. 

Riguardo ai formati fisici invece, abbiamo stampato su tutto: cd, vinile, tape. Il supporto di riferimento è sicuramente il vinile, ma in maggioranza abbiamo lavorato su Cd, soprattutto per una questione di costi. Dirò un sacco di ovvietà, ma anche io sono convinto che l’uscita di un disco sia imprescindibile dalla sua stampa su un supporto fisico, questo perché la mia relazione con i miei dischi preferiti non è solo sonora, ma è visiva, tattile. Sapere dì aver pubblicato un disco nuovo e non poterlo toccare, oltre che ascoltare, è per me molto strano (anche se è comunque capitato con alcuni singoli digitali di Donnie).

Nell’intervista che hai rilasciato a Sa Scena per la rubrica Talkin’ Blues, hai accennato alla co-produzione tra Talk About Records e Electric Valley Records, che vi ha consentito di raggiungere un pubblico più vasto grazie a una distribuzione internazionale di “Rougarou” dei King Howl. Quella del networking proattivo ‒ tra artisti, ma anche tra etichette ‒ sembra una pratica ancora troppo poco battuta in Sardegna. Non credi che questo sia uno dei nostri tanti limiti auto-imposti?

Per noi l’esperienza di collaborazione con Electric Valley Records è stata fondamentale. Marco (colui che sta dietro all’etichetta) in questi anni ha costruito quella che è in assoluto l’etichetta indipendente più attiva dell’Isola a livello internazionale, con una distribuzione e produzione mondiale e un roster sempre più nutrito. Sono veramente ammirato da ciò che è riuscito a fare, e cioè mettere veramente la sua label (e Ossi) sulla mappa dalla scena heavy psych / Stoner mondiale. Collaborazioni come quella con Marco, ma ancora di più quella con Giancarlo Palermo (Brincamus/Agitoriu) sono state al centro di radicali cambiamenti per la mia band e la mia etichetta, passi da gigante grazie alla quale siamo riusciti a ritagliarci un piccolo, ma nostro posto all’interno della scena heavy rock europea. Un traguardo enorme, impossibile senza queste collaborazioni, partite in entrambi i casi dalla Sardegna

Allo stesso modo, sono personalmente molto accorto nello scegliere con cui collaborare. Nei due casi a cui ho fatto menzione, tutto è partito, come già detto prima, da una profonda stima reciproca e da una grande fiducia. Non mi sento di dire che dovremmo tutti collaborare di più. La strada insieme si può fare solo se c’è una grande unità di intenti. 

Oltre a curare il lavoro dell’etichetta, porti avanti da sette anni il festival Vulcani, una manifestazione atipica per l’isola, che si svolge nella piccola corte di una casa padronale del XVII secolo, l’Antica Dimora del Gruccione, un albergo diffuso situato a Santu Lussurgiu, che ospita quattro artisti diversi per quattro diverse date. Il pubblico, in una situazione intima e raccolta, cena al tavolo e assiste un concerto acustico, in genere di musicisti blues. Non sembra un festival che, nei presupposti, punta a fare grandi numeri e, quindi, anche grandi introiti economici. Cioè, questa è una prerogativa (e il destino) di tante manifestazioni in Sardegna, ma voi lo fate consapevolmente. In che modo anche questa può essere una via percorribile?

L’idea di ampliare “Vulcani”, di renderlo un festival più grande, accedendo magari a qualche fondo pubblico e spostandoci di location, ci ha sfiorato forse una o due volte. In tutti i casi, siamo velocemente arrivati alla conclusione che questo nostro festival debba continuare nella sua dimensione “piccola” solo in termini di accessi e numeri. Anzi, quasi mi piace rivendicare il fatto di voler rimanere piccolo, di voler preservare un certo tipo di esperienza, vero motore della rassegna. 

Vulcani si fonda su due principali elementi: la promozione del territorio attraverso la cooperazione di produttori e attività, che ci aiutano ogni anno a realizzare il festival, e la costruzione di un’esperienza molto particolare, che è allo stesso livello collegata alla musica cosi come alla location, al mangiare e al bere. Lo vediamo ogni anno negli occhi di chi sceglie di partecipare al festival, siano questi pubblico pagante o artisti: “Vulcani” rimane per noi un evento unico, proprio per la natura dei luoghi, della musica e della gente che lo compone. 

Festival Vulcani – Foto di Diego Pani

Veniamo a “”, un docufilm nato per indagare il concetto di ricerca musicale, che ha finito per raccontare l’esperienza dei Don Leone nel Deep South degli Stati Uniti, in occasione della loro partecipazione all’International Blues Challenge, a Memphis, nel Tennessee. Tu hai curato le riprese, mentre montaggio ed edit finale sono frutto della collaborazione con la tua compagna Elena Cabitza. Solo dopo la sua realizzazione, il film ha suscitato l’interesse dell’ che ha deciso di produrlo e distribuirlo. Come ti è venuto in mente di realizzare questo lavoro, certamente “di nicchia” e non facilmente esportabile, ancora prima di trovare un produttore?

Alla base di questo progetto c’è un forte interesse di ricerca, quello per gli scenari attuali della musica blues internazionale. Da tempo portavo avanti una piccola indagine sulle “scene” del blues, quelle legate al culto dei grandi bluesmen del passato, alla loro mitizzazione, ma anche quelle maggiormente vicine al Do It Yourself e al punk. Per questo, insieme proprio ad Elena Cabitza ho compiuto nel 2017 un primo viaggio da Nord a Sud degli Stati Uniti, partecipando da spettatore a festival e concerti, incontrando operatori del settore e musicisti, avvicinandomi di più ai diversi contesti live e discografici legati al blues e alla old-time music americana. Esattamente un anno dopo questo primo viaggio, poi, la partecipazione dei Don Leone all‘International Blues Challenge di Memphis, TN, mi ha offerto una occasione privilegiata per raccontare l’incontro tra questa multiforme scena musicale e due ragazzi che arrivavano dall’altra parte del mondo, lo stesso posto da dove arrivo io, dandomi quindi la possibilità di coniugare la ricerca sul blues con l’interesse per la musica che arriva dalla nostra isola. Tutto è stato istintivo e completamente DIY, nel senso che non ho avuto nessun tipo di borsa o sovvenzione esterna, né il supporto di una camera crew, per la realizzazione del lavoro. Come spesso accade con i prodotti Talk About Records, abbiamo fatto tutto da noi: sul campo sono stato da solo con Donato e Matteo, occupandomi di riprese video e audio, e nella fase della post-produzione ho lavorato insieme ad Elena, fino al montaggio e al color finale. Sarà l’abitudine, ma non avevo minimamente pensato di chiedere nessun supporto esterno o pubblico per questo lavoro. È stato Ignazio Figus, responsabile del settore audiovisuale dell’ISRE (e grandissimo regista di documentari) a interessarsi al lavoro dopo che gli avevo mandato un primo cut in modo da raccogliere i suoi preziosi feedback. Lui mi ha proposto una co-produzione da parte dell’Istituto rivelatasi poi fondamentale soprattutto in relazione alla presentazione pubblica del documentario. Un onore per me che questo mio lavoro finisca nella filmografia dell’Istituto, che annovera film di grande importanza per il racconto della vita culturale della Sardegna

Scatto dal set di The Search – Foto di Diego Pani

A proposito di ISRE, con cui collabori dal 2018 in veste di “Responsabile della gestione, studio, promozione e catalogazione del patrimonio musicale”. Proprio di recente ISRE ha deciso di pubblicare in digitale alcuni lavori prodotti dall’istituto: i primi due sono “Ethnografie” di Paolo Fresu e “Canto in Re”, cofanetto curato da Paolo Angeli. Da etnomusicologo e da musicista, quanto credi che il lavoro portato avanti dall’ISRE possa contribuire a tenere in vita nel contemporaneo le nostre tradizioni musicali?

L’Istituto Superiore Regionale Etnografico è stato istituito nel 1972 proprio con il compito di studiare e documentare la “vita sociale e culturale della Sardegna nelle sue manifestazioni tradizionali e nelle sue trasformazioni”. Da allora porta avanti la propria missione istituzionale attraverso un’articolata serie di attività e, all’interno di queste, ovviamente, non poteva mancare un nutrito interesse per la musica. Sin dalla sua fondazione, l’Istituto ha organizzato in questo senso campagne di ricerca sul campo, ma anche concerti, festival, ha ospitato musicisti, studiosi, ha pubblicato dischi e libri, e ha prodotto film documentari di interesse etnomusicologico. La sua storia stessa è percorsa anche da un cammino prettamente musicale, come testimonia il suo ricco, ricchissimo archivio sonoro. La mia collaborazione con lSRE si è per questo focalizzata sull’istituzione di una divisione musicale, che si promette di capitalizzare e organizzare quanto è stato fatto negli anni dall’Istituto riguardo le pratiche musicali della Sardegna, e sulla predisposizione di nuove azioni mirate circa la cura, lo studio e la promozione del patrimonio sonoro della Sardegna. Azioni che cominciano proprio dalla collaborazione diretta con i musicisti, i cantori, i poeti, relativamente all’organizzazione di campagne di ricerca o festival.

Allo stesso tempo, il lavoro di ISRE MUSICA è animato dalla digitalizzazione e archiviazione dei documenti sonori raccolti dall’Istituto, che vedranno presto una loro riorganizzazione, dal lavoro discografico che ci ha visto ripubblicare digitalmente i dischi da te nominati, e ancora altri progetti condivisi con altre istituzioni, come il LABIMUS dell’Università di Cagliari, o ancora dai focus su particolari generi tradizionali, come quello sul canto a tenore.

Questa copiosa serie di progetti sono alla base del lavoro svolto dall‘Istituto per la musica della Sardegna, impegno che cresce di anno in anno e che ha come obiettivo proprio quello di studiare e promuovere le sue tradizioni musicali. 

Al festival Terras e Musas con i poeti improvvisatori – Foto di Stefano Zedda

Come ricercatore ti occupi di relazioni tra musica e media. Nello specifico di come i media si diffondono in ambienti musicali di tradizione orale e di come cambiano questi mondi. Nella tua tesi di dottorato mi hai detto di trattare il rapporto tra media, popular culture e tradizioni di canto a cuncordu del Montiferru. A cosa si rivolge di preciso la tua ricerca?

Sono estremamente interessato alla contemporaneità dei fenomeni musicali di tradizione orale, alla loro inclusione in un mondo musicale estremamente complesso, in cui il sapere tradizionale, legato a precisi luoghi e comunità e una volta relativo al passaggio “orale” di stili, repertori o interi generi, viaggia di pari passo con le influenze di altre musiche, prime fra tutte quelle popular. Attraverso una prospettiva interpretativa, la mia ricerca vuole utilizzare la nozione di cosmopolitismo musicale come paradigma per comprendere la sfocatura dei confini tra le tradizioni musicali vernacolari (relative a luoghi, spazi e lingue specifici) e la popular culture. Sono particolarmente interessato a come le identità musicali dei cantori a cuncordu attingono sia ai modi tradizionali di pensare e fare musica sia a elementi strettamente legati al flusso globale della popular music. Uno degli interessi critici dello studio è comprendere come la circolazione delle registrazioni di canto a più voci influenzi le idee dei cantori di oggi sulla musica e le pratiche musicali (ad esempio, l’influenza che le registrazioni storiche hanno sulla performance odierna e la circolazione contemporanea della musica attraverso i dischi e soprattutto internet).

Sempre nell’intervista a Sa Scena, consigli la lettura del libro “Africa and the Blues”, dell’etnomusicologo tedesco Gerhard Kubik, sul collegamento tra le tradizioni musicali africane e l’origine del blues. Cosa, secondo te, ha permesso a una musica profondamente legata alla cultura africana, spesso a sacche culturali circoscritte, di fare presa su un pubblico vastissimo e diventare moderna e popular, influenzando quasi tutta la musica contemporanea durante il Novecento?

Kubik nel suo libro chiarisce con vigore una cosa importantissima, cioè che il blues di per sé non nacque in Africa, e neppure nel primo momento in cui un africano mise piede negli Stati Uniti, ma che il blues americano fu il logico sviluppo di processi specifici di interazione culturale tra i discendenti africani negli Stati Uniti tra il 17° e il 18° secolo, in determinate condizioni economiche e sociali. Dall’incontro forzato tra le musiche, le storie, le culture dei popoli africani, il territorio americano e la cultura “obbligatoria” importata dagli europei, nascerà una musica nuova, destinata a diventare uno dei fenomeni culturali più importanti di sempre. Ed è proprio nei caratteri fondamentali della genesi di questa musica in cui ritroviamo la sua forza a mio avviso, nel suo essere il risultato di un incontro tra due culture molto diverse tra loro, che hanno dato vita ad un mezzo espressivo che attraverso la musica raccontava delle quotidianità di tutto un popolo, facendo leva su poche ma cruciali strutture melodico-ritmiche, veicolo espressivo per raccontare, con forza, veemenza, una condizione umana. La solidità di quelle strutture musicali, la loro riproducibilità ed adattamento, unita all’incredibile carico di significati culturali e sociali che ogni brano di blues si porta dietro, hanno fatto sì che la musica blues arrivasse a tutti, colpisse il profondo di tanti ascoltatori diversi, arrivando a cambiare le sorti della popular music del XX secolo, e, ancora, risultando un genere estremamente attuale anche al giorno d’oggi.