Alessandro Cau è un batterista – mi si consenta di specificare autodidatta – compositore e insegnante di musica. Poi ha anche fondato un’etichetta e pare sia molto bravo a fare la carbonara di zucchine. Nei ritagli di tempo ha trascorso qualche anno a Londra, dove ha suonato con Diagrams, Charles Hayward di This Heat e Gong, Geoff Barrow dei Portishead, Boredoms, Miles Cooper Seaton. Una volta tornato in Italia è incappato nei C+C=Maxigross, in Marco Giudici (Halfalib), Adele Altro (Any Other), Nick Rivera, Enzo Favata e la Trovarobato. Non male per un batterista di Santa Giusta. Ora è uno dei musicisti più apprezzati nell’isola – e non solo – e c’è il suo zampino in alcuni dei progetti autoctoni più interessanti degli ultimi tempi (Moti Mo, Pororoca, Stun, Mauro Sigura 4tet, Undisco Kidd).
Ciao Alessandro, iniziamo dalle basi. Quello che hai affrontato è un percorso formativo bello articolato, che annovera gente del calibro di Stefano Battaglia, Max Serra, Matteo Sodini, Cristiano Calcagnile, Michele Rabbia, tour per mezza Europa, l’orchestra di composizione istantanea Snake Platform e l’Associazione Hanife Ana, per cui hai curato produzioni teatrali, laboratori e performance. Esperienze che immagino siano state determinanti per il tuo modo di insegnare musica ai ragazzi. Quali cose hai voluto portare nel tuo metodo di insegnamento e quali invece hai scelto di abbandonare proprio?
Penso che insegnare sia uno dei mestieri più complicati che esista. Mi interrogo costantemente se lo faccia nel modo corretto e diciamo che cerco di farlo come piacerebbe venga fatto a me, pensando agli errori che ho fatto nello studio della musica, non solo della batteria, e cercando di mettere assieme i vari step, in un ordine più o meno coerente, che dipende sempre da chi si ha davanti. Mi piace trasmettere subito la gioia di suonare uno strumento, prima della tecnica e della teoria: senza il piacere di suonare, qualsiasi informazione fatica a permeare lo studente. La prima cosa che faccio è far suonare ai miei allievi un semplicissimo ritmo e suono la chitarra con loro. Questo svolta sempre la situazione, perché vedono con i loro occhi che con due colpi possono già suonare delle canzoni. Cerco anche di mostrare che esiste la pazienza, perché gli obiettivi si raggiungono a piccoli passi e con tanto impegno, non certo con un click. E che hanno pari importanza anche la consapevolezza del suono, la fame di ricerca e l’ascolto degli altri e di ciò che ci circonda. E credo di fare questo soprattutto grazie alle mie esperienze più sperimentali e quelle nel teatro. Finisco col dirti che non ci sono cose che ho voluto abbandonare: magari alcune si sono evolute, ma nella mia esperienza di allievo – troppo poca, purtroppo – ho sempre avuto esperienze positive.

Credi che oggi, nelle scuole civiche, nei conservatori o nelle scuole private, si stimoli davvero la musicalità dei discenti? E con quali distinguo?
A questa domanda non è semplice rispondere. Penso che la musicalità si possa stimolare e penso che questo possa essere fatto anche e soprattutto all’interno delle famiglie, portando i bambini a vedere concerti o qualsiasi evento artistico, dal teatro alla pittura o al cinema. Qualsiasi cosa. Non credo che la musicalità abbia solamente a che fare con la musica, ma sia un concetto più ampio e, soprattutto, soggettivo. Quindi sì, si può fare, ma per far si che venga poi applicata ci deve essere una grande propensione da parte della persona stimolata. È un po’ come la creatività o, più banalmente, la simpatia, parametri sicuramente più soggettivi rispetto alla tecnica, che ha più a che fare con la meccanica del movimento.
Mi raccontavi di un sondaggio che hai lanciato ai tuoi studenti per capire su cosa si orientassero negli ascolti e, più in generale, sulla fruizione della musica. Ci puoi raccontare meglio?
Si tratta di un sondaggio che feci a inizio 2019 in alcune scuole superiori, un’iniziativa che mi sarebbe piaciuto portare avanti anche negli anni successivi in maniera più strutturata, magari in forma laboratoriale, non unidirezionale nei loro confronti, ma reciproca. Mi spiego. Negli gli anni ho notato un calo di presenze dei più giovani durante gli eventi: sempre meno adolescenti che suonano uno strumento, che creano band, che stanno in sala prove, che chiedono di suonare nei locali. Non dico che questo sia sbagliato, ma volevo capire come sta andando il mondo della musica e degli ascolti. Perchè non voglio fare musica solo per me, vorrei farla anche per gli altri e vorrei capire dove vanno le loro scelte. Ora è parecchio che non leggo quei questionari, però ricordo bene, tra le varie risposte, la pochissima voglia di imparare a suonare uno strumento, l’ascolto della musica in playlist e non un disco intero per volta, tantissimi ascolti reggaeton, rap, e K-pop (tra i quali ricordo di aver trovato qualche artista davvero interessante), pochissimi ascolti rock e derivati. Ma la cosa che mi ha sconvolto di più, e che mi sarebbe piaciuto riprendere, è stato il fatto che la stragrande maggioranza (9 su 10) considerava un concerto come un evento con migliaia di spettatori, come quelli nelle grandi arene: eventi minori non venivano reputati neanche dei concerti e quindi non venivano nemmeno presi in considerazione. Una roba che mi ha davvero scosso.

Due anni fa hai deciso di lanciare, con Federico Fenu, tuo compagno di merende, l’etichetta Tuttorotto, che ha esordito con una compilation intitolata “01”, con 29 featuring da un minuto e mezzo ciascuno, in cui hai chiamato a suonare tanti talentuosi musicisti sardi. Sono un po’ troppo rare questo tipo di pubblicazioni nella nostra scena, eppure credo siano importanti per compattarsi e fare quadrato intorno a certi contesti musicali. Cosa ne pensi, tu che invece l’hai fatto?
Nel 2020 abbiamo presentato Tuttorotto, hanno partecipato in 29 tra artiste e artisti da tutta Italia, non solo sardi. Come dici bene tu penso che queste occasioni in cui si mettono insieme tante persone con una visione comune, tuttarotta, sia fondamentale, che sia all’interno di un disco, di un festival, di un collettivo o di una performance. Soprattutto riguardo lo stare assieme, quindi il confrontarsi e performare. Sono occasioni per vedere chi e cosa c’è di fianco a noi. A me viene una voglia matta, viscerale, di creare queste occasioni, di conoscere cosa fanno le altre persone e di interagirci. È come se mi sentissi più giovane rispetto alla mia età, ma ho più di trent’anni e – sembra una cosa banale –, ma penso che queste azioni collettive funzionino con più forza e abbiano un impatto maggiore, quando nascono da menti fresche, per certi versi più incoscienti, che possano dedicare loro tempo e anima. Con una vita lavorativa già avviata e per le situazioni familiari e sociali che ci si può immaginare, non è semplice avere la stessa efficacia di un tempo. Forse sono un po’ pessimista in questo: penso di avere già superato quell’età, ma continuerò a provarci. Magari tirerò su un’orchestra con 40 persone!
Non vediamo l’ora di ascoltarla. Un tratto comune dei featuring presenti nella compilation, ma anche della tua figura di musicista e compositore, è, per semplificare, l’originalità. In un’intervista hai raccontato di un episodio capitato durante un laboratorio con Michele Rabbia. Dopo un breve provino vi ha detto che per quanto bravi poteste essere, ci sarebbero stati sempre dei ragazzini di 14 anni molto più bravi di voi. Aggiungendo poi che sareste dovuti essere diversi, fare altro, “a loro la batteria, a noi la musica, dobbiamo cercare di essere unici in qualcosa che solo noi facciamo”. Dici che questa frase abbia rappresentato uno spartiacque nella tua carriera. Al di là del tuo specifico percorso, quanto pensi sia importante questa vision per un musicista?
È fondamentale! Bisogna studiare il proprio strumento, certo; dopo quell’esperienza non ho smesso di farlo, anzi, mi ci sono tuffato ancora più a fondo. Però penso che un musicista, in generale, debba davvero capire come avere a che fare con gli altri musicisti e con la musica che vorrebbe a creare, come potersi innamorare di questa e vederne, in prospettiva, le possibilità che può offrire. Ci sono tanti musicisti incredibili, ma dovremmo sempre pensare «Perchè dovrebbero chiamare me? Cosa posso portare in più o di diverso rispetto agli altri?». Questo è molto importante, ma non bisogna essere diversi perchè fa figo o perché lavori di più. Deve essere una necessità, un bisogno di trovare la propria voce personale, anche perchè si percepisce quando la diversità è una finzione, anche nel diverso ci si uniforma. Specifico una cosa: parlo del circuito musicale nel quale mi trovo e sono sicuro che in ambiti più formali e accademici questo concetto non funziona.

Anche qui da noi si sentono in giro tanti musicisti di talento, molto bravi tecnicamente, ma forse non troppo originali sul piano dello stile o della scrittura. Cioè, suonare, si suona pure, ma forse scarseggiano un po’ i progetti originali che propongono musica inedita e che provano un po’ a rompere gli schemi…
Su questo punto sono d’accordo solo in parte. Mi spiego. Hai davvero ragione che qua da noi in Sardegna c’è un livello tecnico molto elevato in generale, ma penso ci sia anche tanta tanta creatività. Ora magari è più sparsa rispetto a prima che si concentrava in band e circuiti ben definiti. Devo anche dire che, a mio avviso, l’insularità porta con sé un difetto e un pregio molto grandi. Da una parte abbiamo difficoltà nel periodo della formazione, nell’avere contatti esterni che fanno crescere e ci fanno confrontare, non solo tra musicisti, ma anche con gli operatori del settore (etichette, promoter, ecc.). Dall’altra parte, però, trovo che questo isolamento possa spingerci a trovare linguaggi diversi e meno uniformati. Insomma, penso che qui si riesca a rompere gli schemi, ma che si incontri maggiore difficoltà a fare lo stesso con i confini.
Mi hai anche detto di fare laboratori di riciclo musicale per bambini e ragazzi? Anche questa, ce la puoi spiegare un po’ meglio?
Beh, tengo laboratori di vario genere. Tra questi ci sono anche dei laboratori di riciclo musicale, si chiamano “Tutto Suona”, e sono spesso rivolti a bambini, ma mi è capitato di svolgerli anche con adolescenti e adulti. In questo laboratorio faccio indagare i suoni ai partecipanti con oggetti di uso quotidiano, cerchiamo di capire tutte le possibilità sonore di un singolo oggetto (es. un foglio di giornale) e delle combinazioni di più oggetti, creiamo strumenti con questi materiali e scriviamo composizioni con partiture di semplici simboli. Ovviamente l’ho fatta molto breve, ma il punto fondamentale è che da una semplice cosa si possono trovare tante soluzioni, e questo, soprattutto nei bambini, aiuta sviluppare una maggiore apertura mentale anche per la risoluzione di un banale problema: ci si ingegna in tanti modi e molto spesso devo dire che ho imparato più io da loro che viceversa. Tengo anche laboratori di propedeutica ritmica, di improvvisazione e di percussioni di gruppo.

Avendoci lavorato come musicista, compositore e produttore, cosa pensi possa essere utile al circo musicale isolano? E cosa, al contrario, credi sia dannoso?
Credo che in Sardegna manchi un poco la voglia di far gruppo. Negli anni ci siamo un po’ seduti (mi ci metto in mezzo anche io) e credo che ci sia meno spinta. Ma penso sia anche dovuto a una generale difficoltà economica nel sostenere le iniziative: meno partecipazione alle iniziative di iniziativa privata significa meno fondi per sostenerle. Mancano figure fondamentali come i produttori artistici, o meglio, ce ne sono pochissime. Qua non siamo al corrente di quanto possa essere utile un produttore e, quindi, investire in questo, siamo abituati ad andare in studio e registrare i dischi come vengono suonati in sala prove. Nella mia esperienza non funziona così: senza produzione non si entra in studio, perché i pezzi possono prendere forme completamente diverse e le differenze sul prodotto finale possono essere abissali. È come avere un buon pezzo di marmo con un buon progetto in mente, ma non avere le capacità di rifinirlo: rimarrà sempre grezzo e difficile da vendere, un finito-non finito. È vero però che abbiamo dei bei pezzi di marmo. Un’altra cosa che si dovrebbe abbandonare è la propensione alla sicurezza: fa sì che si rischi meno, che si intraprendano meno iniziative per paura di non riuscire a suonare se non si fa qualcosa di accomodante per la massa. Ho sempre pensato che le scoperte più importanti nascano da gesti estremi.
A proposito di gesti estremi. Vorremmo sapere qual è il segreto della tua carbonara con le zucchine.
Abbiate il coraggio di mettere la crema delle uova a fuoco spento. NO GRUMI!