Schema – Dogmathica

Marco CherchiMusica, Recensioni

Di album metal cantati interamente in italiano se ne ricordano poche manciate, attempate testimonianze di scelte patriottiche, ma fisiologicamente anacronistiche, ben relegate nell’underground più fetido di cui vantiamo anche una piccola fetta di vecchia scena sotto i nomi di Elefante Bianco (1994-1999), Skasico (2000-2006) e Inkarakua (2002-2007). Di là dal mare si ricorderanno i non troppo giovani Strana Officina e i meno noti In.si.dia, questi ultimi sotto Polydor grazie a una buona parola di Omar Pedrini ai tempi dei Timoria (due dischi e poi l’oblio).

Ebbene, i in barba alla cabala negativa lo hanno fatto di nuovo, per la (loro) prima volta. Una scelta controcorrente quanto audace che odora di sfida, tanto per loro – rinchiusi in studio di registrazione da prima del Covid – quanto verso la scena che rappresentano, dove a primeggiare sono oggi più che mai i più sexy canoni internazionali.

Schema, secondo album in cascina e il primo con la nuova formazione, è un concentrato di ragionata aggressività che procede senza soluzione di continuità: uno sfogo rancoroso – e forse catartico – dopo anni di travagliata gestazione. Si sentono tutte le cicatrici di un nuovo corso maturato con sacrificio dalla band nata dalle ceneri dei Lego, che dalle complesse strutture djent degli esordi, sempre comunque presenti, sembra muoversi con passo deciso verso un groove/thrash più brutale e diretto. Un risultato ottimamente sostenuto dal riffing corposo dell’ensemble Boi-Spiga e da una performance di spessore di Lucio Manca alla voce, con un’estensione che ricorda molto l’impatto schizofrenico à la Mudvayne (ma anche la foga dei già citati e poco rievocati Inkarakua, tanto per giocare in casa). Ancora una prova impeccabile, infine, di Alessandro Castellano, che ritroviamo alle pelli dopo l’esordio con gli Acts of Tragedy: precisione svizzera e tanta, ma tanta, sostanza.

L’intero album è permeato da una tensione nichilista che emerge esplicita dai testi e si intreccia squisitamente con le atmosfere deflagranti dei pezzi, intermezzati solo in pochissimi anfratti strappati al caos dell’intera composizione, da arpeggi e armonie pizzicate a dare maggior respiro a un’esperienza sonora da attacco di panico.

Pur con un notevole bagaglio tecnico e una certa facilità di scrittura incastrata in riff che funzionano, i nostri scelgono di combinare elementi così attualmente distanti e tutt’altro che avanguardisti – come il djent, il groove, e i vocals in lingua romanza – da tirar fuori una miscela originale ed esplosiva, cogliendo ab origine nel concept quell’effetto dissonante da cui si è solitamente investiti solo al passaggio delle cervellotiche strutture ritmiche degli strumenti. E in questo osano, forse, più di quanto non faccia una certa rappresentanza di genere da tempo appiattita sulla copia carbone di produzioni già esistite/esistenti fuori confine, dai contorni sempre meno riconoscibili, in una scena “nostrana” più nel nome che nelle intenzioni, con un doveroso distinguo che ci sentiamo di fare per ottimi esempi di progetti recenti (Hate&Merda e Napoli Violenta, per citarne alcuni). Un concetto molto semplice anche se astrattamente romantico, nobile e senza morali, che riporta la dimensione “spazio” al centro delle discussioni su musica e scene, a salvaguardia di registri minacciati da un’inesorabile estinzione in un – non poco – impegnativo trapasso generazionale, delicato quanto la riproduzione dei leopardi dell’Amur o degli orsi marsicani.

Difficile stabilire se quella di sia la veste definitiva della band del cagliaritano, con un netto rebranding stilistico in sole due uscite che fa pensare a un percorso ancora in evoluzione, o a una “rinascita anestetica” per citare loro stessi (Bestie del Caos). Di certo a cambiare è tutto ciò che da Schema inizia e si dipana, perché se con Start Becoming Nothing i Dogmathica «assomigliavano ai Meshuggah», è proprio con Schema che i Dogmathica iniziano ad assomigliare ai Dogmathica.