Si dice che tradurre sia un atto di violenza in quanto il traduttore altro non fa che piegare il testo originale alle regole della propria lingua. Forse lo è anche recensire un prodotto artistico, perché inevitabilmente si piegano intenzioni ed espressioni dell’artista a quelli che sono gli strumenti di analisi – ma anche emozionali – di chi scrive. Se a ciò si aggiunge un salto generazionale il tutto è più che amplificato.
Questa introduzione per arrivare a parlare dell’EP d’esordio dei Dodo Quartet, freschissima band cagliaritana, pubblicati dalla sempre più lungimirante Atlantide Dischi. Si intitola San Domenico, è stato registrato e mixato da Corrado Tolu, mentre per il master ci si è spostati a Lecco, all’Aemme Studio di Salvatore Addeo. Stando a quello che ci dicono gli autori dovrebbe anticipare un full lenght, già in fase di lavorazione.
Ora, per rimanere nella comfort zone del bravo redattore, dovrebbe arrivare la parte della catalogazione, del genere, delle influenze, della violenza insomma, e sciorinare etichette e citazioni che fanno parte più di un’esperienza autoreferenziale che narrativa. Soprattutto se questo metodo si applica per raccontare quello che gli stessi autori definiscono “esigenza di raccontare i nostri vissuti, siamo in 4 e ognuno ha visioni diverse”, qualcosa che semplicemente “è accaduto, poi a posteriori si guarda e si cerca di capire cosa è e cosa è stato”. Se infatti la formazione è quella classica (chitarra, basso, batteria e voce), tale non pare l’approccio compositivo. I Dodo Quartet sembrano voler fare della fluidità il proprio marchio di fabbrica e, in maniera del tutto coerente alla scala dei valori della migliore generazione Z, si concentrano più sul messaggio che sul canale comunicativo, senza alcun bisogno e nessuna voglia di mettere desinenze alle proprie creature musicali.
Per cogliere San Domenico è dunque meglio mettere da parte la lussuria del catalogatore, e provare a gustarsi senza sovrastrutture un lavoro di chi, candidamente, non ha problemi nel mettere distorsioni, cassa e rullo in faccia e passare, senza soluzione di continuità, a un’acustica simil caraibica. Questa è la formula – assolutamente personale – per sentire realmente il sapore di arsenico in bocca durante un acquazzone in piazza San Domenico, o percepire l’angoscia di Irene che cerca suo figlio in una strada deserta in provincia, o prendersi per mano nella grande Muraglia Cinese. Bisogna perdersi nel suono degli strumenti e nello scorrere delle liriche, forse vero punto di forza del disco, capaci di raccontare quell’ossimoro generazionale che riesce a far convivere una rassegnata malinconia con uno spensierato fatalismo.
Al termine di queste righe forse ancora non si è parlato del disco, ma va bene così, perché diciamolo dai, una recensione altro non è che un modo di parlare di sé a sé sfruttando un oggetto altrui, ma alla fine “è solo un rituale e un bisogno”.