Diego Pani - Elena Cabitza - Talkin' Blues - Simone Murru - Intervista - Cagliari Blues Radio Station - Sa Scena Sarda - 12 aprile 2020

Talkin’ Blues – Intervista a Diego Pani

Simone MurruInterviste

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Il frontman di e intervistato per la rubrica Talkin’ Blues, in collaborazione con

Intervista di Simone Murru

è etnomusicologo, musicista e operatore culturale. Dal 2010 è il cantante dei King Howl, band heavy blues cagliaritana che ha dato alle stampe 3 dischi ed è stata più volte protagonista di tour italiani ed europei. Nel 2019 ha fondato La Città di Notte, band che, unendo atmosfere blues e cool jazz alla canzone italiana, si accinge a esordire con il primo disco proprio nel 2020.
Dottorando alla Memorial University of Newfoundland (St John’s, Canada), è l’attuale etnomusicologo referente dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna (ISRE). Si è occupato di musica tradizionale della Sardegna e di popular music, concentrandosi soprattutto su generi quali il canto a più voci e la poesia improvvisata e sul rapporto tra musiche di tradizione orale e mediatizzazione. Punto cardine della sua ricerca è la produzione audiovisiva, legata principalmente al video making e alla fotografia all’interno dei contesti di studio dell’etnomusicologia. Dal 2008 gestisce Talk About Records, etichetta discografica indipendente e associazione culturale impegnata nella produzione di dischi, concerti, tournée e festival.

A quando risale il tuo primo incontro con il blues?

Alla prima volta che ho guardato “Dal Mali al Mississippi” (Feel Like Going Home), documentario di Martin Scorsese del 2003. Sarà stato il 2007: in quel periodo ascoltavo un sacco di rock’n’roll e rockabilly degli anni ’50 e cantavo in una band rock’n’roll, i Giannies. Quel film mi presentò un mondo musicale nuovo, di cui avevo sempre sentito parlare, ma a cui non avevo mai prestato la dovuta attenzione. Mi catturò subito l’incredibile potenza espressiva di questa musica, mi affascinò il contesto sociale e culturale da cui questi suoni provenivano, i volti, le strade, fu un incontro davvero emozionante. Il film inoltre esponeva la figura di Alan Lomax, e da studente di etnomusicologia non ho potuto fare altro che innamorarmi del personaggio e del suo monumentale lavoro. Quel film è stato il punto di svolta.

Tra i tanti artisti qual è artista in particolare che ti ha ispirato da subito?

Son House: il suo stile, l’urgenza espressiva del suo cantare, del suo suonare la chitarra, è stata la componente fondamentale che mi ha portato ad innamorarmi del blues. Altri sono stati Charlie Patton, Cecil Barfield, Howlin’ Wolf, Little Walter. Queste voci che da sole possono muovere montagne sono la ragione per cui adoro la musica blues.

Oggi il blues ti coinvolge su diversi progetti: bands, casa discografica, festival , ricerca e film. Iniziamo a raccontare partendo dalle band, King Howl e La Città di Notte.

I King Howl sono una band da ormai 10 anni. Io, Marco Antagonista (chitarra) e Ale Cau (basso) suoniamo insieme da 10 anni! Mi suona strano solo a pensarci. Questa band per me è stata importantissima, mi ha permesso di vivere delle esperienze musicali indimenticabili, di connettermi con una comunità internazionale di musicisti, organizzatori, etichette e festival underground. La cosa che più mi rende fiero dei King Howl è però il suono. Già dagli inizi abbiamo pensato ad una nostra personale versione del blues, una versione che tenesse conto di tutte le altre musiche che ci influenzavano e che ci continuano ad influenzare, dal punk allo stoner, fino al classic rock anni ’70 e alla psichedelia. Questo risultato ci ha forse chiuso qualche porta durante questi anni, ma ha consolidato un nostro suono, una sorta di marchio di fabbrica della band. Abbiamo girato l’Italia e l’Europa per anni e ci sono successe le cose più assurde, abbiamo avuto la nostra dose di sfortuna, litigi e battute d’arresto, ma ci siamo divertiti davvero tanto e ci siamo tolti parecchie soddisfazioni. Ora, nonostante impegni di lavoro, famiglia, stiamo lavorando al disco nuovo.

La Città di Notte è invece nata solo un anno fa. Appena rientrato dal Canada ho riunito 3 musicisti che stimavo da tempo, sia personalmente che musicalmente, Andrea Schirru (piano), Frank Stara (batteria), e Edoardo Meledina (contrabbasso). Insieme abbiamo messo in piedi una nuova band che partiva dal blues, dal jazz e dal rock’n’roll primitivo per creare un repertorio profondamente autoriale, dialogando “però” questa volta con la canzone italiana. In maniera molto naturale, nei primissimi mesi di vita sono venute fuori una dozzina di canzoni in cui si riflettono diversi stati d’animo, diverse storie, diverse influenze musicali. Cantare in italiano per me era ed è ancora una cosa nuovissima, che a volte mi spaventa, ma mi piace da morire. La band ha avuto la fortuna di trovare due produttori artistici, Roberto Macis e Andrea Piraz di Solid Twin Music, che hanno sposato il progetto e con cui, proprio in questi mesi stiamo lavorando agli ultimi ritocchi del disco d’esordio.

Quanti dischi hanno all’attivo e quali sono i progetti imminenti?

I King Howl hanno prodotto negli anni 2 dischi, “King Howl Quartet” (2012) e “Rougarou” (2017) e un Ep di quattro tracce, “Truck Stop Ep” (2014). Abbiamo da poco terminato una prima stesura dei brani che comporranno il nostro terzo disco.

La Città di Notte ha esordito discograficamente qualche settimana fa. Il 3 aprile è uscito il nostro primo singolo, “Sconfitta”, e altre release sono programmate per i prossimi mesi. Per il disco invece, bisognerà aspettare l’autunno.

Quali sono stati i canali di distribuzione dei dischi pubblicati e quanto hanno venduto?

I King Howl devono tantissimo a Bandcamp. Su questo sito abbiamo venduto la maggior quantità di dischi, abbiamo fatto conoscere la nostra musica a tantissime persone, e stretto collaborazioni che si sono poi rivelate fondamentali nel tempo. I dischi dei King Howl si sono venduti prevalentemente su questo portale e ai concerti. Con “Rougarou”, grazie alla co-produzione tra e Electric Valley Records, siamo riusciti ad arrivare a molte più persone attraverso una distribuzione internazionale del disco. Per questo, il plauso va tutto a Marco ed Electric Valley, una etichetta in continua crescita.
Sia il primo “King Howl Quartet” che il secondo “Truck Stop Ep” sono andati sold out nella loro versione fisica (CD), per entrambi avevano stampato 1000 copie. “Rougarou” è invece uscito sia in CD che in vinile e di questa uscita ancora abbiamo un po’ di “magazzino”. Importantissima in questi anni è stata la distribuzione digitale, che soprattutto su Spotify ci ha permesso di arrivare a molti più ascoltatori.

La casa discografica Talk About Records come nasce, come lavora, quali artisti promuove?

Talk About Records nasce nel 2008 per poter produrre gli album dei Giannies e da allora ha licenziato dischi che vanno dal rock’n’roll al rap, dal blues al punk rock, arrivando fino alla musica ambient. Sicuramente, la direzione artistica principale è quella vicina alla musica blues e rock’n’roll. Tuttavia, la spinta principale che anima l’etichetta è l’amore per l’etica del DO IT YOURSELF, dell’autoproduzione, per me una vera e propria filosofia di vita. In questi 12 anni di vita dell’etichetta ho avuto la fortuna di produrre delle piccole gemme di blues come River of Gennargentu (Taloro EP), Don Leone e Bad Blues Quartet. Il collegamento tra la Hill Country blues di River of Gennargentu e l’ambient/drone di SARRAM sono appunto Lorenzo (River) e Valerio, la grande amicizia che mi lega a loro e la profonda stima della loro musica.

Ci presenti The Search e ci parli della tua ricerca in questo ambito?

The Search” è frutto di una esperienza di ricerca nel Deep South degli Stati Uniti durata due anni, il cui risultato è al centro del montaggio di un documentario audiovisuale. Lo scopo primario della mia indagine era quello di raccogliere sul concetto di “Ricerca” relativa alla musica in cui ogni artista è coinvolto (su un determinato brano, una melodia, uno stile esecutivo). Nel caso di The Search il concetto è legato espressamente al viaggio che tanti appassionati e musicisti blues compiono negli Stati Uniti, alle loro aspettative e alla loro “ricerca” (o meglio, pellegrinaggio) su quel terreno, culla della musica che amano. Nel materiale raccolto, l’esperienza di due giovani musicisti sardi, i Don Leone, viene rappresentata in relazione a quella propria di musicisti, organizzatori, ricercatori che vivono nel profondo sud degli Stati Uniti, personaggi profondamente legati a quei luoghi iconici: dai racconti del bluesman Watermelon Slim, alle ricerche sulla musica blues dell’etnomusicologo David Evans. All’interno di questo quadro, ho voluto ritrarre un contesto contemporaneo legato alle comunità locali di musicisti e al turismo musicale, cercando di ritrarre quegli incontri fondamentali per l’esperienza vissuta dai ragazzi, e persino i limiti di un “primo viaggio”, in cui si può solo grattare la superficie di un mondo musicale molto complesso e articolato.
Ho realizzato le riprese da solo, mentre il montaggio e l’edit finale si è avvalso della collaborazione di Elena Cabitza. Anche “The Search” è nato come progetto DIY, condiviso da me ed Elena sin dal primo montaggio, poi il film ha suscitato l’interesse dell‘ISRE che ha deciso di produrlo e distribuirlo.

Le proiezioni stesse del documentario sono per me motivo di indagine ulteriore. Mi piacerebbe ragionare anche sulla differenza di ricezione di un documento come questo da parte di pubblici diversi, primo fra tutti quello italiano e quello americano. Ho avuto l’opportunità di presentare il documentario in Sardegna ad inizio 2020 e spero in futuro di poterlo presentare negli States con lo stesso obiettivo.
The Search” è un tassello di una ricerca più ampia, che sto portando avanti da diverso tempo e coinvolge la mia attività con la Talk About Records, incentrata, essenzialmente, sul potere immaginativo che la musica blues e la old time music americana ha sugli appassionati. Mi interessa sapere come la musica riesca a evocare suoni, posti, persone, contesti, a renderli palpabili nella mente dell’ascoltatore anche a chilometri di distanza. Un altro elemento che mi interessa è la valutazione estetica del blues nella connessione con l’immaginario punk-hardcore e l’etica del Do It Yourself. Tanti giovani musicisti blues di oggi arrivano ai generi delta e down home con una chiave di lettura che abbraccia l’essenzialità di questa musica (e del suo mondo culturale) per cui “è essenziale, senza fronzoli, è suonato in faccia, proprio come il punk”. Questo per me è un campo di ricerca infinito, e sono molto fortunato nel poterlo percorrere anche attraverso la mia attività con la Talk About Records.

Vulcani – Blues nel Montiferru è una realtà ormai consolidata, ci racconti come funziona?

Vulcani è un piccolo festival blues che ogni estate, da sei anni, porta all’Antica Dimora del Gruccione, un albergo diffuso situato a Santu Lussurgiu, quattro artisti diversi per quattro diverse date. Il concerto si svolge nella piccola corte di una casa padronale del XVII secolo che ospita l’albergo, un luogo dalla forte atmosfera. Chi partecipa al festival prende parte a un concerto blues quasi sempre acustico, in una situazione molto intima e a numero chiuso. Ogni serata ha un biglietto che comprende il concerto e la cena, sponsorizzati da un produttore del territorio i cui prodotti vengono presentati durante la serata. La mission del festival è unire la musica e il territorio del Montiferru in un evento unico. E’ inoltre abbinata una serie web che comprende interviste e performance degli artisti coinvolti. Per quanto mi riguarda è una delle esperienze maggiormente positive che ho fatto a livello organizzativo (arrivata dopo una bruttissima parentesi lavorativa, tra l’altro). Io e Lucilla Speciale, manager dell’albergo, ci conosciamo da tanti anni e al Gruccione sono sempre stato di casa. É bellissimo vedere come, con il passare del tempo, tutti gli artisti che vengono a esibirsi per il festival (a cui sono molto grato) si sentano parte attiva di questo progetto.

Riprendiamo a parlare della tua musica. Come nascono i brani delle tue band?

Con i King Howl capita che abbia in testa una melodia vocale, a cui do una forma precisa insieme a Marco Antagonista (chitarra) per poi arrangiarla insieme a tutta la band in sala. Il testo arriva sempre alla fine. Con La Città di Notte, nella maggior parte delle occasioni, l’input per il brano è fornito da Andrea Schirru (piano) e qualche volta da me sempre in relazione a una linea vocale. Tutto viene poi arrangiato dalla band. Adoro il processo di scrittura di un pezzo è un momento di forte dialogo sia artistico che personale tra tutti i musicisti.

C’è una canzone dei King Howl che consideri più rappresentativa sino ad oggi?

Sono molto legato a “Mornin‘. Ricordo benissimo quando ho scritto il testo, dopo un viaggio in macchina da Santu Lussurgiu a Cagliari con mio fratello, passato a parlare del suo lavoro, delle difficoltà che si trovava a fronteggiare e di progetti per il futuro. Quel brano parla di amore fraterno, di Sardegna e del fare qualcosa per cambiare il proprio destino. “Mornin‘” è poi diventato il brano di maggior “successo” (se così possiamo chiamarlo) dei King Howl. Ogni volta che sento qualcuno che la canta con me ai concerti, è una grandissima emozione.

Quale canzone o brano di altri avresti voluto scrivere?

Qualsiasi brano di Tom Waits.

C’è un disco che ti ha cambiato la vita o comunque influenzato in maniera decisiva?

Forse “Swordfishtrombones” di Tom Waits. In realtà potrebbero essere anche altri dischi suoi: “Rain Dogs”, “Blue Valentine”, “Real Gone”, “Closing Time”, “Mule Variations”. Tom Waits è un creatore di mondi, che si compongono in ogni brano attraverso le sue parole, l’inflessione vocale, i suoni usati, gli andamenti ritmici. L’incontro con la sua musica è stato per me un punto di non ritorno.

Tra concerti e tour ci sono dei ricordi di viaggio e musica che ci vuoi raccontare?

Questa è una domanda davvero difficile a cui rispondere. La storia dei King Howl è costellata di ricordi per me molto importanti. Forse posso raccontarti di un concerto a Siegen, vicino Colonia, che sarebbe dovuta essere la seconda data del nostro tour europeo a marzo 2018. Io vivevo in Canada in quel periodo, e avrei dovuto volare verso l’Inghilterra e dopo verso l’Italia per partire insieme alla band. La prima data in Baviera saltò perché cancellarono i miei voli a causa di una tempesta violentissima. Ho prenotato così nuovi voli e il viaggio è iniziato da St John’s fino ad Halifax, da li fino a Toronto, per poi fare la tratta dal Canada all’Inghilterra durante la notte accumulando ritardi in tutte le partenze. Arrivato a Londra ho dovuto spostarmi da un aeroporto all’altro della città, ho preso un volo per la Germania e sono arrivato a Colonia,da lì ho fatto 2 ore di furgone fino al Vortex Surfer Club di Siegen dove dopo meno di un’ora ero sul palco, completamente stremato. Pensavo di non reggere neanche un pezzo, ma successe l’incredibile, il posto era imballato e c’era un’energia unica tanto che al secondo pezzo stanchezza e fastidio erano completamente scomparsi e suonammo un concerto da paura.

Che strade sta seguendo oggi la tua ricerca come etnomusicologo?

In questo periodo sono a Washington DC, dove sto portando avanti una internship per la Folkways Recordings, l’etichetta discografica dell’Istituto Smithsonian. Sto contribuendo a un progetto multimediale che organizza tutte le risorse di Folkways in alcune piattaforme tematiche di apprendimento musicale, rivolte sia a studenti che a insegnanti. Io sto attualmente lavorando alla piattaforma dedicata al blues, occupandomi principalmente di creare contenuti di introduzione al contesto socio-culturale di nascita di questa musica. Ho la fortuna di poter utilizzare le incredibili risorse audio-video dell’etichetta, che nel proprio archivio dispone dei master originali di artisti iconici come Leadbelly, Mississippi Fred McDowell, Ma’ Raney, Lightnin’ Hopkins, Woody Guthrie, Pete Seeger e tanti altri. Una grande occasione.

Hai un progetto o un disco da consigliare?

Ti consiglio un nome italiano, e un disco americano, tutti e due blues.
Il nome italiano che ti faccio è quello dei Caboose, duo del sud Italia di stanza a Berlino. La scorsa estate sono stati ospiti di Vulcani e il loro live è stato uno dei più belli di sempre. Potenti e bravissimi a gestire le dinamiche, sempre in bilico tra lirismo e psichedelia, un connubio perfetto. Puoi vedere un piccolo estratto del loro concerto di Vulcani a questo link: https://youtu.be/AIr-G4W5lYA.
Il disco che ti consiglio invece, uscito un sacco di tempo fa, nel 2007. É un disco di Watermelon Slim & The Workers e si chiama “The Wheel Man”. Questo è il disco di blues che più ho ascoltato durante gli ultimi anni. La band è fenomenale e Slim, secondo me, e lui è semplicemente immenso. La sua incredibile voce, le storie che racconta, il modo in cui suona la chitarra e l’armonica risentono di quella urgenza espressiva che per prima mi ha fatto amare la musica blues.

Ci consigli anche un libro?

Africa and the Blues”, libro di Gerhard Kubik, dove l’etnomusicologo tedesco affronta il tema del collegamento tra le tradizioni musicali africane e l’origine della musica blues. Lo fa con rigore scientifico, utilizzando un linguaggio comprensibile ed evitando i luoghi comuni, rischio frequente quando si parla di questo argomento. Il libro è inoltre accompagnato da un disco molto bello.
Cambiando scena e tipologia di libro invece, ho appena finito di leggere “Tranny”, autobiografia di Laura Jane Grace, cantante e chitarrista degli Against Me!, band punk rock americana. Il libro racconta della sua vita all’interno della band (sua creatura) e della sua disforia di genere, che l’ha portata a cambiare sesso nel 2012. Amo la musica degli Against Me! forse per la forte ispirazione che trae dal folk americano. Laura Jane Grace è una sorta di Bruce Springsteen punk e transessuale, un personaggio molto interessante.

Come sta il blues oggi?

E’ una musica essenziale, la cui esperienza è prima di tutto “di pancia”, la gente attribuisce al blues un valore estetico molto soggettivo, legato spesso ad altre esperienze musicali. Proprio per questo penso che il blues sia sano, vivo e pulsante, perché muta, si trasforma e influenza con la propria narrativa forme musicali sempre nuove. Il blues è qui per restare.

Ci consigli un disco “made” in Sardegna?

Tra i dischi usciti di recente, mi ha colpito “Crossing” di Francesco Piu. Non mi aspettavo assolutamente un disco del genere, ma dopo il primo ascolto, sono rimasto catturato dalla finezza delle idee di Francesco, dal dialogo musicale tra lui, il grande lascito di Robert Johnson e il paesaggio mediterraneo.

Hai lo spazio per un saluto finale!

Più che un saluto, ci tengo a ringraziare Cagliari Blues Radio Station e Sa Scena Sarda per la bella intervista e per tutto il lavoro che fate in nome del blues e della scena isolana. Grazie!

Grazie Diego Pani e “Lunga vita a te e al Blues“!

Simone Murru per Cagliari Blues Radio Station e Sa Scena Sarda