Il racconto della serata svoltasi al Teatro Lirico di Cagliari per la quindicesima edizione del festival
Le fotografie sono di Daniela Steri
Il Marcus Miller tour 2022, iniziato dalla fresca Reykjavik nella settimana precedente alla tappa sarda, ha in Cagliari la sua bandierina più vicina all’equatore. Il “Superman of Soul” fa nuovamente tappa nel nostro continente dopo un’assenza durata quattro anni, dal Laid Black tour del 2018 che, assieme all’Afrodeezia tour del 2016, ha scritto “sold out” per ben due volte sul cartellone dell’Alcatraz di Milano, conferma sempre viva nel tempo di un jazz che, dalle nicchie più elitarie, si intinge di modernità per raggiungere le masse indistinte. Il Teatro Lirico di Cagliari, parimenti alle capitali musicali dello stivale, non fa fatica a saturarsi in un passaggio caotico di persone che prendono posto in poltrona davanti al palco del Culture Festival, sotto l’organizzazione del direttore/compositore sanlurese Simone Pittau.
E proprio sui preparativi l’organizzazione sembra inizialmente inciampare, con un cambio location a pochi giorni dall’evento che dall’inaugurazione dell’auditorium di Piazza Nazzari porta i prenotandi al chiuso del Teatro Lirico. Colpa di una data poco propizia caduta il 17 del mese, direbbero i più superstiziosi, ma non è il caso né la Dea (S)Fortuna a costringere al cambio di programma, quanto piuttosto il fatto che l’Arena Spettacoli non sia stata ancora ultimata, come fa notare qualche sagace residente sulle pagine dell’evento.
I tempi sono stretti e il polverone è già alto sul cielo cagliaritano, avvistato e inalato in anticipo da qualche agenzia che non si fa pregare per cavalcare la polemica contro la giunta (“incredibile a Cagliari: con 32 gradi concerto di Marcus Miller al chiuso, “vietato” il Parco della Musica che non c’è“, Cagliaripad).
Insomma, nervi tesi in partenza e tutti i presupposti per aspettare di battere i pugni al primo, minimo, scomodo, ulteriore contrattempo ambientale in una giornata attesa da tempo, dal live di Dave Weckl del 2021.
Ma poi fortunatamente c’è la musica che si prende il suo spazio naturale, con l’inconfondibile slapping del bassista newyorkese che si fa subito di casa spazzando via attese e malcontenti. Ed è il pubblico in primis a dimostrarlo con scroscianti applausi alla vista del cappello nero di Marcus Miller che dalle quinte guadagna il centro del palco: brevi intese con la band, qualche “ok” col pollice al pubblico per poi indossare il Fender Jazz e partire per un viaggio di due ore che incontrerà i classici senza tempo, tra funky, fusion e tradizione dell’electric jazz. Su quest’ultima Miller intesse la parte più intima della performance, accompagnando al suo talento sopraffino la presenza spirituale e ispiratrice dei più grandi del passato: immancabile il tributo al maestro Miles “Electric” Davis, con un riferimento particolare agli inizi degli anni ‘70 (ripete la sottolineatura, a voler quasi invitare il pubblico a memorizzare, annotare), un passaggio epocale scandito dalle gesta del Quintetto Perduto in cui il jazz diventa jazz-rock introducendo gli strumenti elettrici, dalle tastiere, alle chitarre, al basso (su quest’ultimo sorride e ringrazia il cielo, ironicamente).
Dalle quasi due ore di musica al Lirico emergono i due volti dell’anima di Miller: quello modernista e fusion, dai groove funky-soul sincopati che fanno battere le mani e schioccare dita, a quella più emotiva e rarefatta, una voce narrante su un’anima semplice e a noi vicina, sempre elegantemente vestita. C’è il soul che avvicina e scalda, il funky che fa muovere testa e fianchi, la fusion che spezza e stratifica, il jazz più classico che distende ed eleva: il tutto in un continuo scambio in accoppiata, quasi duellistico, dove Miller gioca comunque sempre di squadra, quando con i fiati e quando con le tastiere, talvolta cedendo la sezione ritmica per affievolirsi e dare spazio ai virtuosismi della più giovane compagine a cui riagganciarsi arrangiando in corsa, giocando col senso del ritmo e muovendosi su frequenze squillanti.
Il gran finale è riservato ai groove trascinanti di “Detroit” e alla jam di chiusura che da un accenno di “Jean Pierre” si sposta, con l’improvvisazione e uno spazio lasciato ai solo dei componenti, sulle note di “Come Together”, accolta con grande partecipazione dal pubblico.
Il Lirico fa la sua parte nel cercare di ricreare, nonostante gli alti soffitti e l’eleganza da opera, le atmosfere da jazz club urbano lasciando fuori la metropoli caotica, grazie a luci soffuse e minimali ad aprire atmosfere quasi noir. E in buona sostanza ci riesce, con un’esperienza sonora tutto sommato positiva, sebbene non esattamente in linea con le più alte aspettative riservate alla casa della musica per antonomasia in Sardegna: le frequenze del basso del due volte Grammy Awards, in particolare nei solo, a tratti hanno peccato di volumi troppo timidi nella progressione tra le note in thumb e quelle in slap, percezione comunque ben controbilanciata da una ricercata pulizia del suono, dei fiati in particolare.
Apprezzabile l’attenzione nell’inserire un piccolo preambolo dell’organizzatore a cappello della musica suonata, a ringraziare i patrocinanti ma anche, e soprattutto, il pubblico, un gesto conciliante solitamente relegato a chiusura di certi eventi (e in taluni totalmente assente, forse per protesa scontentezza). Tuttavia da quest’altra parte, sotto il palco, è forse mancato un riferimento esplicito ai disagi logistici subiti a pochi giorni dall’evento, miracolosamente forieri dall’aver creato barriere tra il pubblico e un Marcus Miller sugli allori e che con la dimensione teatro non lesina di sicuro una certa familiarità.
Folta presenza anche di giovani, a rischiarare il valore di un artista che è riuscito a rendere un po’ più popolare il jazz, e lo fa ancora dopo trent’anni sulle scene, commistionandolo e contaminandolo, con il grande aiuto di una (sovra)naturale dote tecnica a servizio di un’accessibilità all’ascolto sempre ben pesata («cerco di suonare musica non tanto per le mie dita ma più per le mie orecchie»), un dono riconosciuto a un olimpo di pochi eletti da Charles Mingus a James Jamerson, passando per Ron Carter, Larry Graham, Bootsy Collins, Jaco Pastorius, Stanley Clarke, Victor Wooten.
Un concerto di altissima qualità che ha lasciato di certo qualcosa al pubblico presente e alla memoria del territorio. Una coralità di sensazioni e un senso di unicità, in questo particolare momento di schiusa di una crisalide che vede la piena consacrazione dei palcoscenici Internazionali in Sardegna dopo alcuni anni di benaugurante continuità (Weckl, Patitucci, Stern, Metheny, Corea, Spyro Gyra, Snarky Puppy) ricollocandoci al centro di quei circuiti di distribuzione in cui l’arte circola libera e che spesso per motivi logistici, appunto, fanno proprio della Sardegna un elemento di sottrazione.