CLVBS

Marco CherchiMusica, Recensioni

Ad ascoltare il primo, omonimo, lavoro dei CLVBS, nuovo progetto musicale che nasce in casa e vanta i nomi, già noti alla scena, di Donato Cherchi (voce), Fabio Demontis (chitarra), Davide Ragatzu (basso), Damiano Fanti (batteria), si potrebbe ridurre il tutto ad un noise un po’ dadaista, o al post-punk che racchiude tutto ciò che è difficile classificare, per quelli che amano giocare ancora con le etichette.

Una formula che pare invecchiare non bene, ma benissimo, se a metterla in musica è un gruppo di quattro elementi che nel 2023 continua a rifiutare l’effettistica digitale a favore di una struttura analogica rivisitata, melodica a suo modo, focalizzata su immediatezza e concretezza sonora. Ma sarebbe una definizione eccessivamente limitata – e limitante – data la presenza di sfumature di genere non così complesse da identificare e, forse proprio per questo motivo, dannatamente efficaci nell’insieme: abbiamo il grunge più sudicio, presente in tonalità più vivide agli estremi del disco (Terrorist Macarena e Blue Gums), il noise à la Touch’n’Go di Bronco e French for Kids (quest’ultima dai richiami evidenti a Jesus Lizard), il post-punk in salsa hardcore (Hurricane molare), il blues arrogante e drogato di acido di Cheap Suit, il r’n’r viscido e danzereccio di Champagne and Denial. Addirittura, c’è spazio per un breve richiamo al revival dark wave con Apocalypse Frown (agli Interpol il primo pensiero) che nel finale esplode in un anthem punk quasi melodico. E, volendola giocare in casa, perché non citare alcune nitide reminiscenze ai troppo sottovalutati Super Elastic Bubble Plastic.

Tanta roba insomma, un carico pesante che potrebbe far deragliare il treno meglio progettato, soprattutto se dirottato sui più comodi binari del cut and paste di estrazione internazionale. Ma non è questo, fortunatamente, il caso dei nostri, alla guida di un navigato ammiraglio di ferro che si muove educatamente tra i generi, seppur con un incedere sonoro pachidermico. C’è amalgama e comunione di intenti, nessuna prevalenza o individualismo: un patto di sangue che paga dividendi in termini di coerenza della proposta artistica e, in questa progettualità, il connubio risulta essere perfettamente a squadra con il manifesto artistico made in ACME («I componenti di questa forma di ACME rinunciano alla loro identità, in ragione di una individualità collettiva, che ha come obiettivo la totale libertà compositiva, conseguibile unicamente ponendo la musica come centro»).

L’accapo è, poi, d’obbligo davanti alla performance di , l’animale teatrale, ferito, che avevamo apprezzato in Her dei Gairo. La sua interpretazione è una personalissima altalena tra spoken-words e un guaito melodico dell’anima, fatto da pennellate grossolane su tela, dove le setole si piegano al peso dei colori più cupi, sguaiate e poco tecnicamente “a modo” ma che riescono a strappare la cartapesta della scenografia mettendoci a nudo con noi stessi. Ne traspaiono chiaroscuri di angoscia, aperti come ferite da un tono incalzante che sembra giudicarci, a momenti spavaldo nella sua miserrima e cinica rappresentazione dell’essere al mondo. Un Io che Cherchi sputa fuori dal corpo assieme a pece e polvere. L’effetto emotivo non è dissimile da una violenza partecipe, lo straniamento che provereste dall’esser colti di sorpresa dal farneticare delirante di un povero cristo mentre siete in piedi su un autobus urbano.

Se è la voce di Cherchi a lasciare il sapore ferroso del sangue che riaffiora a fiotti alla bocca, la sezione ritmica è il fendente allo stomaco che lo provoca, con il basso di Ragatzu che suona logoro e dissonante come un ingranaggio industriale arrugginito e la batteria di Fanti a seguire in impeti schizofrenici.

Un disco da più di un ascolto, cupo e spiazzante, diverso proprio nel suo voler essere diverso rispetto all’offerta attuale della scena, e perfetta colonna sonora per un altro anno che ha tutto il gusto di decadenza e Aperol Soda.