Copertina di Ladyesis dei Capside

Capside – Ladyesis

Francesco Bustio DettoriMusica, Recensioni

Cosa significa scrivere, suonare e produrre un album progressive nella prima metà del ventunesimo secolo? C’è un assioma da cui partire: chiunque pensi che il punk abbia ucciso il prog si sbaglia. I semi hanno attecchito molti anni orsono, le radici sono solide, la pianta non sarà vistosa come un tempo ma produce in continuazione nuovi germogli che attendono solo di essere ammirati. I Capside portano perciò avanti un discorso che si sviluppa da tempo e nel tempo, arricchendo il linguaggio con lemmi ed espressioni rinnovate che non intaccano una presunta purezza del genere, ma al contrario lo arricchiscono di nuove forme e colori, rendendolo fresco, giovane, attraente.

Ladyesis appare seducente già nel titolo, cangiante e disorientante, al pari delle tracce che si snocciolano fra i solchi del vinile che ora gira sul piatto alla adeguate rivoluzioni: note, arpeggi, cambi di tempo spietati e sonorità spiazzanti chiedono con pieno diritto di essere assimilate e sintetizzate con attenzione e dedizione. Non è solo la perizia nell’uso degli strumenti da parte di Valentina Casu (voce), Manolo Ciuti (basso), Roberto Casada (batteria), Martino Faedda (chitarra), Giovanni Casada (tastiere) a colpire, ma la capacità di proporre una idea, un concetto, un modo di intendere la musica personale, intimo e visionario. Quello che viene richiesto non è un ascolto distratto: certe musiche non possono essere uno sfondo alle attività quotidiane, le playlist lasciamole agli algoritmi. Ciò che occorre per godere di questi brani è un abbandono immersivo, totale e incondizionato, atto a scrutare le chimere e i paesaggi sonori dettati dai continui incroci fra strumenti che si avvinghiano e si arrampicano su loro stessi quasi fossero una bouganville di armonie.

Fra gli otto capitoli di quest’opera la matrice stilistica primigenia si lascia ammaliare da momenti più funk e perfino blues, creando varietà sorprendenti all’interno della tavolozza sonora del disco, riuscendo a mantenere vive tensione e attenzione: su tutto si staglia la voce di Valentina Casu, capace di squarciare il mix (anche grazie alla produzione di Andrea Pica) imponendo la sua legge ed evocando a tratti note agrumate di cantautorato italiano.

Chi scrive crede sia un delitto consigliare un brano rispetto a un altro in un percorso che merita di essere intrapreso e goduto nella sua interezza, ma il rapporto irregolare e sghembo con la musica descritto in Dea rappresenta un momento alto e toccante per chiunque si sia intestardito ad avere a che fare con Euterpe e la sua arte, mentre la dolcezza di A mio figlio non può sicuramente passare inosservata. Quindi, tornando alla domanda iniziale, cosa significa suonare prog nel 2023? La risposta la si trova in Ladyesis e credo sia in effetti quasi scontata nella sua banalità: evocare, emozionare, sorprendere al di là di ogni concetto strutturale e dogmatico si possa avere sulla musica, trasportare l’ascoltatore fra i flutti di una corrente con ignota direzione, ma dove la meta non preoccupa perché ciò che conta veramente è il viaggio.