Chi ha avuto la fortuna di sentirli dal vivo, come il sottoscritto, sa bene che suonare per i Musica Ex Machina è un amusement, un intrattenimento personale prima di ogni altra cosa, un’occasione di svago e sollazzo, un gioco ma fatto con estrema professionalità. Questo è evidente durante le loro esibizioni ma anche nell’ascolto dei loro lavori.
In tutto ciò, il loro ultimo Burp, uscito lo scorso ottobre per Hopetone Records non fa assolutamente eccezione.
I nostri portano avanti da circa dodici anni una carriera ricca di soddisfazioni – dal Festival du Verbier all’esibizione a Radio3 – e con ben sei album all’attivo. Annoverati da sempre nel grande calderone del jazz hanno sempre saputo divincolarsi abilmente dalla stretta dell’accademia per ricavarsi spazi sempre diversi in tutte quelle buffer zone che il genere concede magnanimamente per vocazione.
Burp pare, in questo senso, l’ennesima variazione sul tema che, evidentemente, fa si che i ragazzi continuino a trovare nuovi stimoli per non annoiarsi.
Il disco
In perfetta continuità con il passato, anche in questo album emerge la personale visione fusion della band, senza quell’impronta eighties che spesso la rende retrò e stantia, ma, anzi, con impostazioni swing e rhythm’n’blues che, nonostante le ritmiche serrate, difficilmente lo fanno suonare poco jazz.
Questo anche grazie al tastierista Guido Coraddu e, soprattutto, alla tromba di Francesco Bachis, innovativi nello strutturare i brani ma classici nel suono, spaziando tra Dave Brubeck, il Modern Jazz Quartet di John Lewis e Sly and the Family Stone a delineare il precario equilibrio tra tradizione e modernità della band. I molti stacchi e le variazioni all’interno dei brani li alleggeriscono, inoltre, del peso che i tempi molto dilatati – la durata media dei pezzi centrali sfiora i 6 minuti – rischierebbero di conferirgli.
La sezione ritmica, costituita dal basso elettrico di Mauro Sanna e dalle percussioni di Simone Sedda, come da consuetudine tecnica e passionale, è sempre determinante nei brani. Anche la tromba di Bachis sembra trovarsi una collocazione più sua in tutto il disco, con più spazio e maggiore personalità rispetto ai lavori precedenti.
Interessante la scaletta scelta, che sembra seguire un percorso quasi evolutivo, che parte black, con digressioni funky (Saturnalia) e rhythm’n’blues (87h), deriva su toni latineggianti (da Babonzo a PowerChihuahua) e patchanka (Polivinilpirrolidone e Pacha Kamal & co.), che astutamente gli consente di virare su temi più classici e chiudere con quella metaforica Open Arms op, a ridefinire il grande calderone musicale e culturale da cui attinge la band.
Verità
Burp è un album con diversi momenti importanti – uno per tutti la meritata Coda in solitaria di Guido Coraddu – e pochi veri decolli, come una decisa volontà espressiva dei musicisti di dilatare gli spazi suonati e voler mantenere la coerenza del proprio lavoro senza dover limitare la propria libertà di spaziare, attraverso musiche e suoni anche molto distanti tra loro.
Perchè Burp è un disco che vuole parlare di informazione, di verità, di realtà, e nel quale il lavoro più importante sembra essere stato fatto proprio sulla musica. Suoni, tempi ritmi e atmosfere si fanno protagonisti e il titolo onomatopeico-digestivo in effetti ben lo rappresentano: l’effetto liberatorio di un cordiale dopo un’abbuffata di nefandezze contemporanee, un alleggerimento dal caos quotidiano spesso apparentemente insormontabile, ma per il quale la musica può talvolta diventare un grande buco nero in grado di risucchiarlo fino a farlo scomparire. Almeno per un po’.