Il racconto del concerto del cantante americano svoltosi martedì 9 agosto al Parco dei Suoni di Riola Sardo
Fotografie di Daniele Fadda
Correva l’anno 1993 quando uscì “Welcome to the cruel world”, il primo acerbo disco di un giovane – all’epoca appena ventiquattrenne – chitarrista californiano, ma con sangue meticcio, indiano e lituano. La discendenza da una famiglia di liutai e musicisti, non può farne da sola un predestinato, ma Ben Harper ha mostrato fin dalle prime tracce di quel disco, all’epoca introvabile da noi, che invece probabilmente si sarebbe confermato tale. Una notevole tecnica chitarristica, poco convenzionale, una voce sofferta e onesta, uniti a tematiche sociali che fondevano una cruda analisi della realtà a un positivismo mai banale, lo hanno rapidamente messo in luce agli occhi della critica internazionale. Da “Fight For Your Mind” in poi è solo un crescendo di approvazione, fino a quel quinto album in studio del 2003, “Diamonds On The Inside”, che lo ha proclamato definitivamente star internazionale.
In questi ultimi vent’anni ha suonato praticamente di tutto e con chiunque: dagli ultraottantenni Blind Boys Of Alabama ai Relentless7, dal bluesman Charlie Musselwhite alla madre Ellen, è passato agilmente dal blues, al folk, al reggae, al soul, al funky, conservando magicamente quella matrice roots che lo ha sempre contraddistinto. Il suo repertorio è quindi un grande e atipico calderone black, che emerge prepotente con i compagni di una vita, quegli Innocent Criminals che lo hanno accompagnato nei grandi successi e nei passi falsi, garantendogli sempre una backline solida e vigorosa, con il groove infuso in vena. Chi ha assistito a una loro esibizione live, non doveva necessariamente esserne un fan per riconoscere la potenza di esecuzione, il tiro nei brani più massicci e la delicatezza nelle ballad. Una potenza rimaneggiata dall’assenza, difficilmente colmabile, di Juan Nelson, uno dei bassisti più coinvolgenti degli ultimi trent’anni.
In una terra povera di grandi esibizioni di portata internazionale, il live di Ben Harper al Parco dei Suoni di Riola Sardo, organizzato da Sardegna Concerti, non può che ambire a essere una bella boccata di aria fresca. E a giudicare dalle code chilometriche per accedere ai parcheggi, i due anni che i fan hanno dovuto attendere non hanno fatto che aumentarne l’hype. All’interno del parco il pubblico sembra ancora più numeroso e le interminabili file agli stand lasciano presagire che non sarà certo una serata facile. Quando tutti finalmente riescono a confluire all’interno dell’ex-cava di arenaria se ne ha la certezza: si arrostisce a ridosso del pubblico, gli spazi sono saturi, spariscono le vie di passaggio e le persone disabili sono confinate in una piccola piattaforma in mezzo a una via di transito.
Ma quando salgono sul palco i sei e raccolti intorno ai microfoni intonano a cappella Below sea level, per poi imbracciare gli strumenti e attaccare con Burn to shine, per qualche minuto tutto sembra passare in secondo piano. Il concerto però durerà circa due ore e, tra il caldo, gli svenimenti e i fumi delle griglie, si fa presto a tornare alla realtà. Nonostante l’emozione iniziale, il concerto parte in sordina: i volumi non arrivano fino al fondo della platea e i suoni sono compressi e ovattati. Il tiro viene parzialmente corretto e sul palco, dopo una Don’t give up on me now di transizione, arrivanoJah WorkeThe will to live, dove il nostro finalmente posa la lap steel sulle ginocchia e rinfresca la memoria alla folla, mandandola in visibilio. A colpi di slide infila Steal my kisses, Need To Know Basis, Burn on down, We need to talk about it e un lungo medley diFadedeThe Ocean dei Led Zeppelin, in mezzo al quale si concede un lungo solo senza accompagnamento, mostrando la tecnica e i suoni che lo hanno reso oggetto di adorazione. L’esibizione prende pian piano forma e intensità, Diamonds on the inside riporta la band sul palco e chi era lì per il blasone più che per l’artista si sveglia dal torpore e mette finalmente in tasca lo smartphone. Quel “Sardinia you have diamonds on the inside“ mostra un Ben Harper sinceramente grato al pubblico e alla terra che lo ospita e sul finale avrà modo di spiegarne meglio le ragioni. La prima parte di set che anticipa l’acclamatissimo bis, si chiude con How dark is gone, Finding our way e Amen Omen.
Il silenzio e le grida del pubblico nell’attesa che rientrino sul palco, danno tempo e modo per un primo rapido bilancio: chi si aspettava – come il sottoscritto – un concerto ai livelli dei primi anni 2000, quelli a cavallo della pubblicazione di “Diamonds on the inside” per capirci, probabilmente ha visto deluse le sue aspettative, al prezzo di una scaletta quasi perfetta, ma eseguita in maniera fin troppo sobria, quasi compassata. Il chitarrista dà sfoggio della sua tecnica unicamente con la lap steel, ma lascia tutti i soli al pur ottimo sodale Adrian Painter. Paiono lontani i fasti elettrici di Live from Mars o le sfuriate del Live At The Hollywood Bowl di qualche anno più tardi. Il pubblico fa quasi fatica a ballare anche nei pezzi più ritmati e la mancanza di Juan si fa sentire molto più del dovuto. Ma la sincerità non si è limitata ai ringraziamenti e nonostante tutto l’esibizione, fino a quel punto, è arrivata comunque sentita e schietta. A darne conferma poi è arrivata la coda del set, con When she believes, It ain’t no use, Fly one timee, finalmente, With my own two hands a galvanizzare pubblico e frontman, che chiude con unaPink baloondegna degli anni migliori. Sembra finito, ma ecco che imbraccia nuovamente la chitarra acustica per eseguire una struggente She’s only happy in the sun e Walk away, sempre raggiante nonostante i suoi 28 anni.
Con l’aneddoto finale dell’anello trovato nei mari della Sardegna vent’anni prima, che lo ha fatto sentire sposato con questa terra, e la visibile commozione che gli suscita il ricordo, si ha la sensazione che quella fosse proprio la dimensione che il buon vecchio Ben intendesse realmente dare a questo concerto. Una dimensione più intima e sommessa, meno scalmanata e più adatta alla sua attuale indole di cinquantatreenne, forse un po’ stanco, ma ancora gagliardo. E a giudicare dalla veracità della sua esibizione, potrebbe davvero essere la soluzione più plausibile. Una soluzione a un problema che non c’è, perché Ben Harper si è mostrato ancora una volta il grande musicista che è, capace di cambiare nel tempo senza mai perdere del tutto la sua autentica passione per tutto quello che è stato in grado di mettere – e ancora mette – in musica.