Ci sono band, nel panorama metal isolano, che del lavoro in studio e della distribuzione del prodotto finito hanno fatto una questione di professionalità e un elemento distintivo della propria offerta musicale.
Se era stato proprio questo elemento a costituire una delle lacune più evidenti di certe produzioni partorite negli studios sardi in epoca pre-digitale, possiamo dire che sono stati fatti passi da gigante per colmare il divario e, oggi, trovare dischi dal respiro internazionale e curati nei minimi dettagli – a partire dalla pronuncia in inglese – sta diventando una gradita costante. Gli Acts of Tragedy sono tra le band sarde che portano a questa felice, e attesa, conclusione. E l’omonimo disco pubblicato a fine ottobre 2020 da Volcano Records, ne rappresenta, insieme, causa ed effetto.
Il terzo lavoro in studio della band cagliaritana è un ritorno alle origini, un approdo verso i lidi più sicuri del metalcore tradizionale, in cui trovano comunque spazio le incursioni prog già ampiamente sperimentate nel predecessore “Left With Nothing”. Un album che procede spedito sui binari di un groove rabbioso, smorzato dagli intrecci armonici delle chitarre e da un cantato impeccabile, sia sul melodico che sulle linee trash. Una nota a parte merita il lavoro, maiuscolo, svolto dietro le pelli da Alessandro Castellano: un incastro perfetto di colpi che suonano puliti e violenti allo stesso tempo, in altre parole la sezione ritmica come vorremmo sempre sentire in un disco metal. In AOT è facilmente riconoscibile il filo conduttore della discografia degli Acts of Tragedy: la padronanza della materia tecnica da parte di tutti i componenti, unita alla capacità di attingere da una ricca tavolozza di sonorità di genere che riporta, già ai primi secondi dall’ascolto, a una varietà difficilmente quantificabile di assonanze internazionali.
Non a caso, per questo terzo lavoro in studio, i nostri si spogliano quasi completamente delle strutture math, per puntare a un risultato più diretto, non meno violento, ma con maggiore spazio lasciato alla melodia nella sua semplicità. Una scelta oculata che porta con sé onori, ma anche oneri, ago di una bilancia che nella costellazione metal, divide troppo spesso il giudizio dell’attento ascoltatore tra il “capolavoro assoluto” e il “clichè-harakiri”. Nel complesso, ben vengano i tentativi di sbarcare il lunario proponendosi con formule che in qualche modo mirano anche al marketing musicale, soprattutto se questo esercizio collima con l’uscita di produzioni di qualità superiore. Il tutto, però, soppesando il rischio di cadere in scelte stilisticamente omologate che, seppur impeccabili nella resa, tendono a perdere quegli elementi distintivi e di chiara riconoscibilità, imprescindibili per supportare una discografia duratura negli anni e accompagnata da un’audience altrettanto paziente. Destino, questo, di tanti ma non di tutti: torna utile allo scopo l’esempio, proprio dietro casa, degli Awake For Days da Nuoro e quello, ancor più emblematico, dei nostrani Destrage.
Nella proposta degli Acts of Tragedy, di “territoriale” c’è poco e nulla, sia chiaro, tanto che a collocare geograficamente il progetto aiutano i riferimenti anagrafici dei componenti e nulla più. C’è una scena e ci sono gli artisti. E capita, sempre più spesso, che possa non esserci soluzione di continuità tra le due componenti. Gli Acts of Tragedy sono il testimone di una parte della scena che inizia a sentire stretti i confini in cui si è formata. La versione meno romantica di una band locale che sogna in grande, con una precisa percezione di se stessa e che, coraggiosamente, spinge a vedere i risvolti positivi di un’apertura verso un mondo che spesso acclamiamo, ma che si fatica ancora a capire con quali mezzi raggiungere.