Il nuovo EP degli Antennah comincia con “Devil’s saddle”, traduzione in inglese di “sella del diavolo”. E, quando si ha a che fare con un gruppo cagliaritano, l’idea che sia un riferimento tutt’altro che velato a uno dei simboli naturalistici dello skyline cittadino è un collegamento mentale immediato. Ma potrebbe anche essere una suggestione o una coincidenza, perché una delle prime cose che colpisce è lo stile e l’approccio internazionale della band. Un gruppo lontano da scimmiottamenti o copie sbiadite di esponenti britannici, che, per diverse motivazioni, sfortunatamente in passato non ha mai trovato una consacrazione definitiva anche se nato sotto i migliori auspici. Negli anni novanta Gianni Maroccolo e il Consorzio Produttori Indipendenti li prendono sotto la propria ala protettiva, riconoscendo il valore del songwriting e del loro alternative rock, cantato in italiano. “Il nostro Labile equilibrio” del 1997 è un primo disco con forti elementi di contatto con altre realtà tricolori, come Marlene Kuntz, Fluxus o Afterhours. Uno stile perfettamente calato nel momento storico, affinato nel secondo lavoro Love Has Many Faces (Develos Records, 2003), in cui viene limitata la matrice abrasiva, il cantato diventa inglese e ci sono degli innesti che allargano ulteriormente le soluzioni melodiche senza mai dare l’idea di aver perso lo smalto o aver scelto percorsi semplificati o meno interessanti.
Se Ian Curtis cantava in New Dawn Fades, “un cambio di velocità, un cambio di stile, un cambio di scena senza rimpianti”, il viaggio degli Antennah prosegue a distanza di anni con un nuovo cambio di rotta. L’EP è stato pubblicato il 13 settembre dalla 2020 Editions del compositore e bassista Stefano Guzzetti. L’artwork è stato curato da Chris Bigg, storico collaboratore di etichette come 4AD e Beggars Banquets e in particolare per le grafiche dei dischi di Pixies, Dead Can Dance, David Sylvain e Lush. Ma il cambio di stile e di velocità riguarda soprattutto l’ossatura dell’album: l’alternative rock proposto in passato si è completato con la componente post-punk senza scadere nel revival manieristico. Nei quattro brani, che coprono una durata di quindici minuti, vengono valorizzati i singoli strumenti e si percepisce la sintonia ancora esistente tra i componenti della band, nonostante siano passati anni.
Come nel caso di Devil’ saddle, opener che colpisce da subito con linee di basso marcate e una sezione ritmica che richiama il goth rock marziale e spartano dei Sisters of Mercy di Floodlands, mentre le chitarre – a metà strada tra Kitchens of Distinctions e The Sound – creano un pattern blues distorto.
In your eyes e Butter condividono una struttura simile e ben delineata. Sono l’anima più intensa e intima di Sparkle, in cui le trame melodiche dipingono momenti di grande suggestione, con rimandi a dischi come Disintegration dei The Cure (Butter), mentre Nowhere dei Ride e le chitarre di The Edge in Joshua Tree degli U2 sono preminenti in “In your eyes”. La conclusione del quartetto è lasciata alle tinte lussuriose di Perfect Dolly, in cui il cantato baritonale di Cipriano ammalia l’ascoltatore, supportato da una sezione ritmica martellante e dalla chitarra distorta e ruvida di Marco Mancini.
Il disco è di immediato e facile ascolto, restando impresso da subito per la sua vocazione melodica e per alcune intuizioni, tra cui una attenta combinazione di riff portanti, chorus e piccoli fregi sonori che gravitano attorno ai brani.
Sparkle in inglese è la scintilla, da cui parte la combustione o che aziona il movimento: nel nostro caso l’innesco è quello dei quattro brani dell’EP, che alimenta l’impazienza per il prossimo full lenght lasciandoci con l’interrogativo se gli Antennah captino solo belle frequenze dal passato o siano capaci di lanciare un segnale proiettato al futuro.