Antennah
Valentino Murru, batterista della band, ci racconta la genesi di “Love has many faces“, il loro secondo disco
Foto di Per Gustafson
Durante il lockdown, Valentino Murru, batterista degli Antennah, ha proposto a Sa Scena Sarda di rilanciare il loro secondo disco, Love Has Many Faces, pubblicato nel 2003 dalla Desvelos Records di Giuseppe Pionca, sui suoi canali. Abbiamo così iniziato a chiacchierare un po’ con lui quegli anni, della lavorazione del disco e dei loro rapporti con la scena d’oltremare.
Da quelle conversazioni è venuta fuori questa intervista, che abbiamo il piacere di proporvi.
Ricordiamo che è possibile ascoltare Love Has Many Faces sul nostro canale Youtube.
Valentino, vuoi raccontarci la genesi dei brani confluiti nel vostro secondo Album “Love Has Many Faces”, e come il suono si è evoluto rispetto al vostro primo disco targato C.P.I.?
Il primo album è da collocarsi in un periodo storico in cui il post-grunge influenzava un po’ tutti i gruppi della nuova ondata. Già ne Il nostro labile equilibrio, pubblicato dal C.P.I., si potevano cogliere i primi guizzi espressivi che avremmo poi sviluppato meglio in Love has many faces. Sentivamo l’esigenza di evolverci, di assecondare questa inclinazione naturale alla lentezza. Era estate: il caldo e il torpore pomeridiano di quelle sessions in sala influenzarono non poco il carattere delle composizioni e così, in modo naturale, il suono si fece più dilatato, downtempo. Tullio (Cipriano, ndr) e Marco (Mancini, ndr) ridussero fuzz e distorsori per sperimentare nuovi timbri sulle chitarre mentre le ritmiche si fecero più minimali. La batteria entra solo al terzo pezzo! Io e Tullio eravamo più concentrati sulla stesura dei testi, che, con lo svuotamento del suono avevano raggiunto una forma più raccolta e intimista, e sul cantato che si era fatto più sussurrato e giocato su timbri e sfumature. Erano giorni di via vai con ospiti che poi avrebbero contribuito attivamente alle composizioni, come Stefano Guzzetti, Valerio Baraccani, Alessandro Murgia, già con me anche negli Onda d’Urto. Avevamo bisogno di svuotare il suono per consentire l’innesto di ulteriori strumenti: oltre alle tastiere trovò spazio anche un bellissimo intervento di vibrafono del grande Pierpaolo Strinna, percussionista dell’Orchestra dell’Ente Lirico di Cagliari.
Ci ritrovammo quindi con venti/venticinque pezzi e cominciammo la produzione con Bruce Morrison. Fondamentale è stato l’apporto dato da Alessio Carboni degli Elefante Bianco, il quale suonò il basso in tutto il disco perchè nel frattempo Riccardo Sarti aveva lasciato la band. Registrammo una quindicina di brani col nostro fonico Michele Caria.
Vuoi dirci qualcosa sui testi dell’album? Come mai avete adottato l’inglese?
I testi, come accennavo prima, assunsero una dimensione più raccolta e confidenziale. Attraversavo un periodo di grande caos esistenziale, uscivo da una lunga storia d’amore e mi interessavo di ufologia. Cercavo risposte, mi ponevo interrogativi e di lì a poco riscoprii la Fede in Dio. Tanta tensione ha permeato i testi ed è stato terapeutico scrivere. L’apertura del disco è affidata al parlato di Marta Murgia, la mia fidanzata del periodo, il testo parla di interferenze aliene e microchip, quindi riflette in pieno le inquietudini che ci scuotevano in quei mesi. Anche Tullio era cambiato, stava per diventare padre e scriveva molto per la figlia che di lì a poco sarebbe venuta al mondo. Sono molto legato al testo di Granny, scritto a quattro mani con Tullio e che celebra la vita, quella “nascente”, riferita alla creatura che sarebbe arrivata, e quella che “scivola via”. Sono io che parlo di mia nonna, l’ultima che mi era rimasta e da poco volata in cielo. La scelta dell’inglese ci fu suggerita da Gianni Maroccolo perché in quel periodo il CPI si stava aprendo all’Europa con produzioni estere di gran lusso, come i Venus, gli Ulan Bator, gli Here di Theo Teardo e Jim Coleman dei Cop Shot Cop. Lo stesso consiglio arrivò poi anche da Cia, nostra amica e front-girl degli stratosferici Whale. Di lì a poco ci portò a Stoccolma per una serie di incontri con produttori e labels svedesi.
Nella tracklist dell’album compare anche una cover dei Soft Cell, come mai la scelta di quel pezzo?
Sentivamo il bisogno di inserire una nostra personale rivisitazione di qualche pezzo per noi significativo. Avevamo l’opzione “Sorry Angel” di Serge Gainsbourg e “I feel love” di Donna Summer, poi, su suggerimento di Marco, optammo per “Youth” dei Soft Cell. Sono contento di essere riuscito a consegnare personalmente copia del disco a Marc Almond!
Sono passati sei anni tra Il nostro labile equilibrio e Love has many faces. In questo lasso di tempo c’è stata una vera incrinatura del mercato discografico così come lo si conosceva fino ad allora. Come avete affrontato questo cambiamento?
Qui si potrebbe aprire un capitolo a parte, perchè gli Antennah avevano un grande potenziale, che ancora ci viene riconosciuto, invece abbiamo beccato in pieno lo tzunami causato dal tracollo della discografia. Diciamo che tra la pubblicazione del primo e l’ultimazione del secondo passarono tre anni circa. Il 2003 è la data di pubblicazione per la Desvelos di Giuseppe Pionca, ma il disco era già chiuso da due anni e la band si era già disgregata. Maroccolo trattò per noi con Polygram e con Virgin, ma erano cambiate troppe cose: vendite ai minimi storici e una nuova generazione di direttori artistici e A&R che, spaesati, non sapevano ancora come e da dove ricominciare.
Anche con il passaggio a Desvelos il vostro produttore è stato comunque Bruce Morrison. Cosa ci dici a riguardo?
Bruce produsse il primo disco della band e gli dobbiamo tanto. Personalmente con lui sono cresciuto come musicista. Mi ha fatto capire i miei limiti e mi ha insegnato tantissimo, così come a tutta la band.
Cia Berg, front-girl degli svedesi Whale, ma anche conduttrice televisiva e attrice di serie televisive negli anni novanta in Svezia, è ospite nel disco. Raccontaci un po’ come siete arrivati a lei?
In quel periodo a Firenze acquistai il disco appena pubblicato degli Whale, un album pazzesco che suona ancora attuale, nel quale cantava anche Tricky. Andai proprio in fissa! Scoprii da un amico che la cantante viveva in Sardegna, sposata con un ragazzo sardo. Li contattai e vennero a sentirci a Cagliari per l’apertura del concerto dei C.S.I. al Palazzetto dello Sport: concerto sold-out e noi in stato di grazia. Le piacemmo molto e cominciammo a collaborare. Registrammo dei provini che portò a Stoccolma per proporli a diversi produttori. Uno in particolare aveva band distribuite dalla Warner e in giro per gli States con l’Ozzfest. Sempre Cia ci presentò il regista svedese Niels Jensen, oggi poliedrico artista d’arte contemporanea, che lavorò ai nostri video e a quelli dei Marlene Kuntz. Niels è tuttora uno tra i miei più cari amici nonché mio testimone di nozze.
Invece la pista newyorkese? Di cosa si trattava?
Il produttore svedese di cui ho appena accennato venne giù a Cagliari per “testare” la band dal vivo e passammo una settimana insieme a conoscerci e a ragionare su come produrre il disco. Loro disponevano di soldi e risorse e pensavano di proporre la produzione artistica del disco a Blixa Bargeld, suo caro amico. Dopo qualche settimana portò i nostri provini a N.Y. in occasione di una riunione negli uffici di Warner America. Dopo averli ascoltati si mostrarono interessati a lavorarci su. Quando però il nostro amico produttore rientrò a Stoccolma, per motivi personali, dovette staccarsi bruscamente dal mondo della discografia per un certo periodo. Non racconto cazzate! E’ andata cosi. Poi è tornato in scena e oggi è direttore del gruppo Bmg Norh Europe!
Intorno agli Antennah hanno gravitato personaggi che hanno segnato profondamente la storia della musica italiana, a partire da Gianni Maroccolo. Che rapporto c’era con loro?
Gianni è stato il nostro discografico ed è mio amico di vecchia data. Gli dobbiamo tantissimo. Cominciai a lavorare con lui già con la mia band precedente, gli Onda d’Urto, e quando nacquero gli Antennah, con il nostro manager Lello De Vita, gli proponemmo il materiale. Ci sentì dal vivo e ci volle dentro il Consorzio, Lello compreso.
Abbiamo suonato spesso in giro con i Marlene Kuntz, forse il gruppo di punta del CPI. Con loro, e con Cristiano Godano in particolare, ho mantenuto un rapporto di sincera e affettuosa amicizia e tutt’ora ci sentiamo. Con gli Afterhours e Manuel Agnelli ci incrociammo una o due volte sullo stesso palco, in particolare in occasione di un concerto insieme al Velodromo di Faenza. Era interessato alla produzione del nostro secondo disco, fissammo un appuntamento a Milano, negli studi di Mauro Pagani, dove stavano registrando, e gli portai alcuni provini. Poco dopo il C.P.I. si sciolse e la cosa non si concretizzò, un mondo cominciava a crollare e nulla fu più come prima. Qualche tempo fa, in occasione di un’intervista rilasciata a un giornale locale, Manuel ha chiesto di noi e ci ha mandato i saluti. Son cose che fanno piacere.
I vostri concerti di promozione del disco come sono andati? Avete vissuto in pieno anche il periodo di Giovedì Rock al Jazzino, con organizzatore Lello De Vita.
La stagione del Giovedi Rock al Jazzino è stata unica e irripetibile. Ogni giovedì, anche quando suonavano solo band locali, si contavano mediamente cinquecento paganti, numeri oggi impensabili. Lello fece ruotare il meglio della nuova ondata e diede l’opportunità a tantissime giovani band isolane di confrontarsi con la nascente scena italiana. Gli Antennah erano in forte ascesa in quei mesi e di casa al Jazzino. Con il nostro ingresso nel C.P.I. entrammo nel booking dell’agenzia romana Tour de Force che ci fece girare spesso in coppia con gli altri artisti che gestivano (tra i quali Marlene Kuntz, C.s.i., Ustmamò). Era uno sbattimento, il più delle volte si rientrava a malapena dalle spese. Non c’erano voli low cost e muoversi dalla Sardegna era veramente complesso. Abbiamo suonato un po’ in tutto il centro nord e spesso in club, contesti e festival al tempo veramente fighi. La promozione era affidata all’ufficio stampa del C.P.I., con recensioni garantite nelle migliori testate, passaggi dei singoli e dei videoclip nei più importanti network come TMC2, Tele+ e ancora radio, interviste etc. Era tutto molto frizzante.
Insomma, una gran bella storia. Non voglio affrontare qui lo scioglimento della band e altre vicissitudini successive, mi piace pensare a questo racconto come se fosse ancora attuale e come se gli Antennah fossero ancora attivi e magari pronti a districarsi su un palco. Avete mai pensato a una reunion?
Ognuno di noi ancora porta avanti dei progetti musicali o artistici. Marco di recente è stato artefice del progetto Chiodi Blu, io con i Texile, Stefano Guzzetti, membro fondatore della band, non ha bisogno di presentazioni. Tullio e Riccardo ancora latitano ma siamo fiduciosi.
Non abbiamo mai pensato a una reunion perché non avrebbe senso. Ogni storia mantiene intatto il proprio fascino se collocata in un preciso periodo e contesto storico. Ci piace conservare il ricordo di quei concerti con il nostro pubblico attento e in locali pieni e con quell’energia.
Nel frattempo, in attesa di lasciarci definitivamente alle spalle mascherine, guanti e disinfettanti, progettiamo e ci scambiamo idee, ipotizziamo collaborazioni con altri artisti, sardi e non solo. Soprattutto non vediamo l’ora di poter tornare a divertirci su qualche palco e speriamo accada presto, ce n’è bisogno per tutti.