A.C.M.E.

Marco CherchiMusica, Recensioni

«I componenti di questa forma di rinunciano alla loro identità, in ragione di una individualità collettiva, che ha come obiettivo la totale libertà compositiva, conseguibile unicamente ponendo la musica come centro»

(A.C.M.E.)

Complici alcuni evidenti echi al sound più dissonante della East Bay di fine ‘80 (consultare lo Scaruffi alla voce “Neurosis”), ad ascoltare A.C.M.E. si rimane a fare i conti con la  straniante sensazione di non sapere bene da dove iniziare. 

Potremmo ridurre il tutto alla pura forma, una sessione improvvisata da musicisti non meglio identificati. O, per inverso, si può provare a perforare la patina corrosiva dei primi distaccati ascolti per cogliere il manifesto di un collettivo con una progettualità ben definita. Certo è che l’accoglienza di A.C.M.E. al suo multiforme manifestarsi (album, spazio, collettivo, proclama) non possa lasciare privi di un’opinione netta, bipartita senza tentennamenti tra il bianco e il nero.

Un dualismo da cui possiamo partire con il fissare, anzitutto, come non si stia riscrivendo stilisticamente la storia, avendo già avuto anche noi i nostri GAIRO e Charun (forse, chissà, celati a diverso titolo proprio dietro questo progetto), seppur l’album in termini di sonorità se ne distacchi con personalità giocando su un interessante binomio tra ostilità grezza e annichilimento da contorsione gastrica. A ulteriore rinforzo, è da mettere a referto una certa spinta innovativa nella dichiarazione di intenti, mai banale quando si propongono nuovi canoni di produzione musicale come quelli che il collettivo A.C.M.E. si impegna attivamente a promuovere. Un approccio dichiaratamente “diverso” verso tutto ciò che, dall’imbracciare uno strumento, passa attraverso lo spazio fisico in cui questo esercizio d’arte viene svolto, confezionato e consumato, tanto dall’artista quanto dal suo pubblico (zero promozione, zero distribuzione).

Insomma, sarebbe stato più facile raccontare A.C.M.E. se fosse stato un film, perché avrebbe avuto i toni ruggine di Mad Max. O forse un libro, ad esempio One dimensional Man di Marcuse, citato in prefazione alla prima traccia («Ciò che rifiutiamo non è senza valore, è anzi proprio per questo che il rifiuto è necessario») e avvolto in una coltre strumentale corrosiva che sarà il tema emotivo ricorrente dell’album.

Musica eversiva” recita l’insegna sulla soglia che varchiamo quando parte la prima traccia (117), aperta da una chitarra che gratta via l’ossido da una carena la cui schiena rivela una serie di stringhe numeriche, forse indicative della temporalita’ con cui i cinque brani sono emersi dalla polvere rossa calcata negli anni dalla band.

Risulta complesso tracciare dei registri netti tra doom, sludge, e post-metal, ma il tutto è tenuto ben saldo dalla sensazione di muoverci in loop − a stento − all’interno di uno spazio angusto, con un netto senso di smarrimento e oppressione

Nel percorso delle tracce si trovano accenti che innescano moti emotivi tumultuosi con un incedere sincopato e zoppo che appare più simile a un trascinamento faticoso, come di una zavorra fatta rotolare su un terreno sabbioso issando il peso su una spalla (traccia 127), o di un movimento siderurgico ormai logoro nelle guarnizioni che lo costituiscono (traccia 111). Una condizione di sottomissione, forse a preludio di un’imminente liberazione/catarsi. Ancora non lo sappiamo.

Ci muoviamo, d’altronde, in un universo strumentale volutamente occultato, senza registri comunicativi, privati di una maturità cognitiva e assorbiti da una musica primordiale quasi liturgica, scandita da ritmi tribali e da un costante e dissonante eco distorto

Bianco o nero, si diceva. È questo il merito di un’improvvisazione che, nella sua effimera natura, raccoglie la sfida nel cercare di muovere – non senza una certa benevola arroganza – le acque di una scena che va sempre più appiattendosi su modelli d’importazione poco snaturati una volta poggiati sul suolo sardo.

Qualsiasi cosa sia, A.C.M.E. rappresenta, oggi, un pezzo numero uno che inaugura una stagione forse non così comune del fare musica in Sardegna; o forse no, ma che ha comunque il pregio di nascere come origine di diversità e divisione in anni di eguaglianza sfrenata. Autoprodotta e di valore, lontana dai capitali e dai modelli di consumo, come in un mondo post-apocalittico al contrario, risvegliatosi prima dell’epoca industriale consumista e moderna. Lasciateli (e lasciateci) sognare.