
Il bluesman decimese si racconta ai microfoni di Cagliari Blues Radio Station per la rubrica Talkin’ Blues
Il parco comunale di Decimomannu è un luogo magico, un polmone verde nel paese e un centro di socialità popolare e artistica. Il paese negli anni ha sfornato decine di musicisti talentuosi legati a rock, heavy metal e blues che da fine anni 80 lasciano il segno nel panorama musicale isolano e nazionale. Alberto Murru è uno di questi e qui nel parco negli ultimi anni ha creato, con i suoi soci, uno spazio di riferimento per la musica, costruendo progetti, supportando band e rassegne, organizzando concerti e il X Miglio Blues, un festival di blues indipendente, un gioiello per qualità artistica e convivialità.
Qui, su due sedie di legno, sotto il loggiato, tra gli operai in pausa pranzo e gli avventori del bar che parlano di rock, amplificatori e chitarre e non di calcio, conversiamo di musica e radici.
La tua musica parla maggiormente del passato, del presente o del futuro?
La musica è oggi, né ieri né domani. Un po’ come la vita: il passato è passato, ci ha insegnato delle cose ma non ci deve condizionare il futuro negativamente. La musica è speranza e un messaggio per il presente.
Come è nata la tua passione per la musica e il blues?
Ho avuto la grande fortuna di essere nato negli anni 70 e, in famiglia, ho avuto a disposizione un vero e proprio tesoro tra dischi e cassette a nastro di qualsiasi genere. Da adolescente ho imparato a strimpellare la chitarra e a 18 anni ho sentito la vocazione del musicista frequentando i club di Cagliari. Il blues la faceva da padrone e rimasi affascinato dalle esibizioni di musicisti come Franco Montalbano e Vittorio Pitzalis. La loro capacità interpretativa dei repertori di Jimi Hendrix, Muddy Waters, Cream e Stevie Ray Vaughan mi ha incoraggiato a provare e così ho scoperto di possedere un timbro e un registro vocale adatto a esprimere il mio blues. Da lì in poi sono state tante le band in cui ho suonato sino all’esperienza più importante, i Blu:Ztep con Andrea Locci e Davide Pirodda. Siamo stati su tanti palchi importanti e abbiamo registrato il disco “Thingz gotta happen”, molto apprezzato dalla critica.

Ti sei mai mosso dai binari del blues?
Parallelamente al blues, alla fine degli anni 90, c’è stato l’incontro con la scena reggae e ska isolana. Ho scoperto che tutto ciò che suonavo e di cui mi innamoravo aveva radici in Africa e tutta la mia musica era stata prodotta interamente da afroamericani. Presi coscienza che blues, rythm’n blues, reggae, soul, funk di fatto fossero tutte espressioni della stessa creatura e che rappresentavano una sua continua evoluzione, intrisa di ritmo, passione, misteri e riti, di sentimento, dolore e gioia, resistenza, amore, di vita non solo terrena.
Cosa ti ha guidato nella scelta dei tuoi progetti successivi?
Iniziai a concentrarmi solo sul blues che ritenevo più autentico, il Delta Blues e il Chicago Blues.

Col passare degli anni sembra che la ricerca verso le radici sia stata una costante. Quanto è presente oggi nei progetti in cui suoni?
La mia ricerca e l’ispirazione muovono dai ritmi presenti in tutto ciò che è musica, armonie e melodie, tutto ciò che è suono, è ritmo, è canto e danza e ha origine laddove tutto questo nasce, in Africa.
Collaboro come bassista con Faris Amine. Il rapporto tra noi è magico, di fratellanza vera.
È sicuramente il progetto più importante dacché ho scelto di fare il musicista. Faris è nato da madre Touareg e interpreta la musica di quella parte dell’Africa sahariana dove il Blues americano trova grande connessione con le sue radici. Il nostro incontro si incentra su concetti e condivisioni legate alla spiritualità propria delle genti del deserto, come la “Assouf” dei Tuareg, quel sentimento che si genera quando ci si rapporta al vuoto, all’ignoto, al silenzio. Condividiamo il concetto di musica vista come resistenza, come mezzo per diffondere lotta, giustizia, eguaglianza, lealtà e amore. Questa esperienza ha portato a considerarmi, sia artisticamente che umanamente, un musicista e un cittadino di un mondo in cui nessuna terra è mia. Ho ritrovato sia le mie radici di individuo sardo che le profonde connessioni con l’Africa, madre del blues e di tutta la musica popolare intesa come musica della povera gente, ma non musica povera.
Un secondo progetto che va alle radici è The Sharecroppers, con Matteo Oggianu. Il duo interpreta i classici del Delta blues “sporcati” da un approccio violento e aggressivo e allo stesso tempo ingentiliti dai ritmi africani e da melodie morbide eseguite con dobro, weissenborn, cigar box e chitarra acustica.
Suono poi nei Country’s Cousins con Valter Spada, Daniele Cuccu, Giovanni Scano, Massimo Viani e Diego Milia. La band interpreta gli stili e i generi della musica del sud degli Stati Uniti: il blues rurale, il gospel, la musica creola e il bluegrass, cantati a più voci e suonati con cigar box, washboard, cucchiai, violino, mandolino, banjo e armonica. Utilizziamo molti strumenti autocostruiti che hanno avuto origine da utensili di uso quotidiano per proporre un suono quanto più aderente a quello originale.
Cosa lega il blues alla Sardegna?
Il blues nasce dalla sofferenza, dal dolore, ma è anche un canto di speranza, una ricerca di gioia, un rito di guarigione dal male. Da questa consapevolezza la mia musica diventa politica e suona come azione sociale, denuncia e preghiera. Non c’è terra che non possa essere cantata dal blues, figuriamoci la Sardegna, da secoli depredata delle sue risorse e della sua bellezza e il suo popolo da sempre relegato alla sopravvivenza e allo sfruttamento. Poco altro è blues quanto “sa cantada Sarda” de “Is Cantadoris” e “Su sulittu” e le “Launeddas”: sono i suoni che rievocano la nostra radice africana.
Come ideatore organizzatore del “X Miglio Blues Festival” ci racconti l’idea e i suoi sviluppi?
Il festival è nato come cartellone di blues sardo al parco comunale di Decimomannu (“X milestone” è la traduzione di “decimo miglio”). È un festival indipendente, quindi economicamente basato sulla partecipazione del pubblico e gli introiti del bar, il lavoro di tanti amici e professionisti. I nomi delle band sarde si sono poi mescolati con nomi nazionali e internazionali della scena come i Caboose (Berlino e Roma) e Lone Wolf (Miami, U.S.A.). Il festival in due edizioni è cresciuto e nonostante le avversità e il difficile momento storico, pensa al futuro.
Oggi quali musicisti metteresti in cartellone nel tuo festival?
Faris Amine di cui ho già raccontato. Matteo Zuncheddu, per ciò che scrive e per la sua ottima tecnica slide guitar. Matteo Leone, un vero talento blues sardo e tabarchino. I Bad Blues Quartet che propongono un blues moderno e contaminato. River of Gennargentu, interprete di Delta blues, capace di far sentire nella sua musica le origini sarde e assieme le radici africane.
Hai dei consigli musicali per i nostri lettori?
Il blues è un genere musicale molto ampio, ma bisogna fare attenzione a distinguere il blues autentico da quello più estetico e “solo” ben eseguito. Non bisogna farsi ingannare. Non tutto ciò che sembra blues lo è davvero solo perché rispetta determinati canoni. Personalmente mi fido più dei musicisti neri che dei bianchi.

Consigli dei libri sull’argomento?
“La storia del blues” di Roberto Caselli, un racconto che va dalle origini (Africa antica e medievale) fino ai giorni nostri. Alcune biografie, come “The Land Where Blues Began” di Alan Lomax e “Chasin’ that Devil Music” di Gayle Dean Wardlow.
La musica rappresenta il tuo unico lavoro?
Lo è stato per tanti anni, poi ho dovuto integrare con altri mestieri, ma tra poco tornerà a esserlo. Non riesco a considerare del tutto la musica come un lavoro ordinario, avrebbe così un’accezione troppo riduttiva. La musica è la mia vita a prescindere da quanto riesca a guadagnare. Quando suono non conto le ore al contrario, come con qualsiasi altro lavoro. Non conto neanche i soldi che guadagno. Sono contrario alla mercificazione della musica e all’inquadramento della figura del musicista come mero creatore di prodotti commerciali. La musica non è né merce né servizio per quanto le tasse varie applicate ad essa sembrano inquadrarla in questo modo. Questo dilemma va risolto e assieme bisogna trovare una soluzione per regolarizzare la figura del musicista come lavoratore legittimo. La musica dunque va riconosciuta in modo più nobile.

Come immagini il blues del futuro?
Lo immagino bello, perchè se diventa brutto semplicemente non è più blues.
Grazie Alberto, buona fortuna per tutti i tuoi progetti e grazie per il lavoro che fai per il blues e la musica.
Ciao a tutti i lettori. Quando ascoltate blues provate a cercare indietro nel tempo: tra le radici troverete sempre qualcosa di nuovo di cui innamorarvi. Quando suonate, esprimete il vostro blues. Questa musica non è mai una gara di velocità o di tecnica. Come in tutta la musica, ciò che conta sono il feeling e il groove. Se avete questo, avete il blues dentro.
Uscire dal parco comunale di Decimomannu è come uscire da un riparo quando fuori c’è tempo avverso. E’ un arrivederci ad Alberto e a tutta la buona musica che gira qui intorno.