Il racconto delle prime tre giornate del Festival Abbabula 2021
A volerla definire con una sola parola, la XXIII^ edizione del Festival Abbabula sarebbe senz’altro “poliedrica”. Si legga il programma per averne la conferma: le Ragazze Terribili hanno costruito i cinque giorni bilanciando cantautorato pop, trap, world music, jazz e affini. Vien da sé: mai come in questi casi le etichette servono solamente come bussole e anche poco esaustive. E mai come in questi casi una cronaca scritta non potrà che riportare un decimo (bene andando) di suoni, parole, botte allo stomaco, lacrime e adrenalina. Noi ci proviamo.

28 Luglio – Samuele Bersani
“Con il vento sotterraneo/ che anticipa la metro/ in arrivo sul binario/ c’è solo un passeggero”.
Samuele Bersani apre la serata con Pixel, direttamente dal suo ultimo Lp Cinema Samuele fresco della Targa Tenco 2021 per il miglior Album.
Piazza d’Italia è una distesa di seggiole blu ed è zeppa di gente arrivata fin lì da tutta la Sardegna. Bersani rompe il ghiaccio ricordando che sono esattamente dieci anni che manca da Sassari: “Siamo tutti invecchiati davvero, o perlomeno siamo cresciuti”. Lui, che sia cresciuto o invecchiato, ha un’intonazione incredibile.
La scaletta ripercorre i brani più conosciuti: da Psyco a Spaccacuore, passando per una incalzante versione di Cattiva, l’immancabile En e Xanax e l’omaggio a Lucio Dalla con Tu non mi basti mai (“Se facessi Canzone ci beccherei la Siae, ma questa per me è la più bella dell’ultimo periodo di Lucio”).
Brani rivestiti con suoni grandiosi, arrangiati con grazia e acutezza (Lo scrutatore non votante irriconoscibile fino all’inizio della prima strofa). Lode ai musicisti che accompagnano Bersani, e una menzione speciale al chitarrista che appena arrivato a Sassari si è tagliato un dito ed è corso a farsi mettere i punti per poter suonare (da dio); lode alla sciarpetta che Bersani mette quando si alza il vento carogna e lode alla tripletta finale con Giudizi universali, Il mostro e Chicco e Spillo. Applausi, Bersani: il Festival è iniziato e meglio di così non poteva andare. Speriamo di non dover aspettare altri undici anni per rivederci.
Nota a margine: se qualcuno avesse visto dei coccodrilli in quel di Muravera, sappia che il cavallo di battaglia del cantautore di Cattolica è stato scritto proprio lì, “a sei chilometri di curve dalla vita”.

29 Luglio – Carol Mello; Fatoumata Diawara
Complementare: che serve di complemento, cioè di completamento, di integrazione. La serata del 29 Luglio è stata anche questo.
Dopo Piazza d’Italia, le successive serate di Abbabula si svolgono in Piazza Monica Moretti. Gradinate e seggiole: pare di essere in un anfiteatro del nuovo millennio. In programma oggi Carol Mello, musicista brasiliana di Sao Paolo, e Fatoumata Diawara, direttamente dal Mali. Sarà una serata elettrica: è qualcosa di inspiegabile che si respira nell’aria.
Carol Mello, da sola sul palco, apre il suo set con un’esibizione praticamente a cappella: voce e udu (strumento a percussione simile a un’anfora: il nome me lo ha detto lei stessa quando l’ho intercettata poco dopo). Una voce enorme, che da sola riempie la piazza di armoniche. Viene da chiedersi come sarebbe stata la sua performance con una band di supporto (come in questo live a Radio X Social Club, Cagliari). Quando Mello imbraccia la chitarra classica e si lancia prima nel fingerpicking e poi nel percussive guitar di un samba, il pubblico è totalmente ammutolito. Tanto che è lei stessa a darci la sveglia quando gli applausi sono un po’ troppo timidi: “Tutto qui quello che sapete fare? Come on, ci aspetta un concertone dopo!”. Non è facile gestire un palco in solitaria, ma Carol Mello ha mestiere alle spalle: si vede e si sente. Mentre snocciola inediti, brani popolari brasiliani e altri dal suo Ep A-Cor-Da (come Fora do Tempo), ci ipnotizza tutti sino al gran finale: scalza sul palco, batte i piedi a mo’ di percussioni e intona un samba accompagnandosi con le mani che colpiscono a tempo una fasciatura stretta attorno al suo petto. Non vola una mosca. Game, set, match. Mezz’ora di professionismo a palate e cura di ogni minimo dettaglio.

Se la cifra stilistica del set di Carol Mello è quella dell’intimità da one woman band, Fatoumata Diawara ci trasporta all’esatto opposto. Insieme a lei quattro musicisti sul palco: basso, chitarra, batteria e tastiere. Fin dai primi due brani, Don Do e Kokoro, si capisce quale sarà il tenore del concerto: ritmi convulsi, afrobeat con sangue funkeggiante, basso e batteria dritti in gola e nella cassa toracica. Lei si divide fra una voce spaziale, danze forsennate e una chitarra che spazia dallo strumming ai soli. Ogni pezzo della scaletta è una jam infinita di altissimo livello. I giochi di sguardi fra i musicisti e gli assoli dicono tutto. Da incorniciare la scena di Yacouba Burkina, alla chitarra elettrica, che conquista il centro del palco ed esegue un solo magistrale beccandosi uno dei tanti applausi a scena aperta. C’è spazio anche per ricordare un nome tutelare come Fela Kuti(a lui è dedicata Negue Negue, con un intro di basso slap da spellarsi le mani per gli applausi) e per una personalissima cover di Sua Maestà Nina Simone, Sinnerman. Lo shuffle di Fenfo è l’unico momento di relativa bonaccia del concerto: gli ultimi pezzi sollevano il volume, i beat e anche il pubblico, sino alla chiusura con Anisou che vede salire sul palco ragazzi e ragazze africane del pubblico: “I miei fratelli e le mie sorelle”, dice Fatoumata, prima di scatenare un ballo che sa di rituale catartico, un loop ipnotico fino alla conclusione del concerto strappata via così come l’inizio. Senza parole. Fatoumata Diawara e la sua band hanno letteralmente buttato giù Piazza Monica Moretti. Forse il miglior concerto di Abbabula 2021, sicuramente uno dei più belli della mia vita a oggi.

30 Luglio – Claudia Canu; La Plonge; Ariete
Il 30 luglio è la serata indie, qualunque cosa voglia dire questa parola, e per la prima volta in vita mia mi sento davvero vecchio. Non è una cosa negativa ma una semplice constatazione: l’età media del pubblico si aggira intorno ai 18 anni con rari picchi che non fanno certo percentuale. L’attesa per l’esibizione di Ariete è palpabile sin dalla fila all’ingresso.
Claudia Canu, giovanissima, sale sul palco accompagnata da pianoforte, batteria e chitarra – a essere precisi, il chitarrista si alterna fra sei corde, parti cantate e doppie voci. Il set della giovanissima cantautrice di Sassari è di quattro pezzi, uno dei quali scritto a quattro mani con il chitarrista/cantante/corista Matteo Mastino. Claudia Canu sta sul palco come se fosse a casa sua, è molto precisa nel canto e la resa sonora dei quattro musicisti è notevole. Batterista e pianista hanno grande intesa e precisione nei dettagli. L’impasto di voci fra Matteo Mastino e la cantautrice è d’impatto tanto quanto la sua capacità di interagire con il pubblico: belle le torce dei cellulari sventolate dal pubblico a mo’ di accendini sull’ultimo pezzo del set, Bloccami. Canzoni scritte e interpretate con criterio, e aggiungo: non è facile creare una scaletta efficace con soli quattro brani. Beh, missione compiuta e alla grande. So long, Claudia Canu. Applausi strameritati.

Se Claudia Canu è una delle belle rivelazioni di questa edizione di Abbabula, i La Plonge sono una conferma. Band di lungo corso della scena underground di Sassari, per la seconda volta ad Abbabula (la prima fu nel 2013), stasera presentano i brani del loro prossimo disco Tre lunghi inverni, in uscita a fine estate.
L’apertura è azzeccata e d’ambiente, con l’incedere misurato e quasi algido di Morbida, uno dei pezzi più a fuoco dell’intero set. Poi si prosegue con Sale, dove è preminente l’uso del synth di Domenico Canu che per l’occasione ha lasciato le parti di chitarra a Giovanni Sanna. Si va avanti con i due singoli di anteprima del disco, Divi degli aperitivi e Paolo: “Ognuno ha i suoi gusti di merda/ e i miei li difendo”. Sezione ritmica sempre sul pezzo, sequencer che fanno la loro, fraseggi di chitarra che seguono. Pop con i crismi: belle melodie ma tutt’altro che scontate e parole che restano in testa (“E se vedo un bel tramonto spero in Dio”, da Un Re, è un ottimo esempio). Chiude l’esibizione la frenetica title track dell’Lp, Tre lunghi inverni. La metafora del vino che diventa più buono quando invecchia è ampiamente abusata, eppure credo che stavolta sia pertinente. Aspettiamo il nuovo disco dei La Plonge, e chissà che nel frattempo non venga fuori qualche nuovo singolo.

Raramente ho visto qualcuno comunicare col proprio pubblico come Ariete. Per certi versi, e con tutte le differenze, lo zoccolo duro dei fan della cantautrice di Anzio mi ricorda quello di Vasco Rossi. Un esempio: Ariete arriva in Piazza Monica Moretti da uno dei cancelli secondari, seguita dai musicisti e dal suo staff. Io me ne accorgo dal boato alle mie spalle e dai fan che le corrono incontro poco prima che lei sparisca nel backstage. Quando viene annunciato l’inizio del suo set, il boato si ripete. I musicisti salgono sul palco: chitarra, batteria e bassista/tastierista. Quando entra in scena lei, è il terzo boato, che accompagnerà tutta l’esibizione.
Si parte con Nottataccia. Tutto funziona: suoni bilanciatissimi, arrangiamenti efficaci e Ariete intonatissima. Si muove, interagisce con i musicisti e parla con il pubblico, si accende una sigaretta con un accendino regalatole da un fan, canta Amianto e subito dopo una folla si accalca sotto il palco per darle bigliettini e regali di ogni tipo, compresa della pasta al pesto (non scherzo). A tre quarti del concerto parte anche una cover di Where is my mind?, con il mio urlo di approvazione partito in automatico (l’unico nella piazza: sentirsi vecchi è anche questo). La serata volge al termine con il momento “chitarra e voce” (Quel bar e Venerdì), per poi chiudersi nella cavalcata travolgente di 18 anni che fa alzare e ballare sul posto (quasi) tutto il pubblico e con il bis di Mille guerre.
La band esce di scena, il pubblico si dirada, chi verso le uscite chi verso il backstage. Qui arriva l’ultimo momento in cui mi sento veramente vecchio: una ragazza, parlando a un’amica, dice: “Mia madre è partita adesso da Alghero per venirci a prendere”. Ah, il non avere la patente, il costringere i propri genitori a orari improbabili in posti spesso improbabili per concerti (secondo loro) improbabili. Tutto molto bello, come il concerto di Ariete.