Il racconto della quarantaduesima edizione del festival svoltosi al Teatro Massimo tra il 30 settembre e il 2 ottobre con due anteprime il 28 e 29 settembre
Fotografie di Daniele Fadda e Stefania Desotgiu
42 anni portati benissimo nonostante tutto, nonostante le pandemie, il clima che cambia, le derive politiche e gli animi della gente sempre più afflitti e incostanti. Da quel lontano 1980 ne sono successe di cose: il mondo è cambiato, sono cambiate le logiche della fruizione musicale, i modi del consumo e persino la predisposizione all’ascolto, sia fisica che cerebrale. Proprio per questo è sempre salutare ritrovare un evento che ci accompagna dai lontani anni della nostra giovinezza (per quelli come me…) ma anche per chi si è avvicinato alla grande festa della musica in anni più recenti. Ed è persino commovente ritrovarsi negli stessi spazi di quel mitico 1980: un teatro che nel tempo è cambiato anche lui ma i fantasmi del passato sono sempre lì che ci prendono per mano e ci tengono compagnia. Persino lo stesso festival è mutato varie volte sia nel format sia negli spazi in cui si è sviluppato. La città di Cagliari è sempre stata la sede principale mettendo a disposizione la sua architettura e la sua storia: si è passati dalla vecchia Fiera, ai vari teatri, alle piazze, ai parchi (memorabili le edizioni al parco di Monte Claro) e talvolta si sono esplorate altre destinazioni (Parco dei Suoni) per poi tornare al vecchio e glorioso Massimo. Negli ultimi anni il festival ha persino assunto la denominazione di European Jazz Expo una sigla che lo affianca alle migliori esperienze europee del genere: North Sea in Olanda, Montreux, Nizza e tanti altri in una univoca vocazione: musica di grande qualità negli spazi urbani più suggestivi da vivere e condividere.
Questa 42ma edizione ha avuto due anteprime il 28 e il 29 settembre con l’esibizione dei C’mon Tigre al Teatro Massimo e Bandabardò & Cisco con il Non fa paura Tour 2022 al Parco della Musica e una band che ha sempre avuto un imponente seguito popolare particolarmente attesi in città dopo la scomparsa del frontman Erriquez e l’arrivo di Cisco dei gloriosi Modena City Ramblers. I C’mon Tigre invece sono un culto maturato negli ultimi anni con una proposta straniante, trasversale, piena di citazioni, umori del mondo, caos compulsivo che rimanda a infinite chiavi di lettura. Erano già passati a Cagliari qualche anno fa in occasione del secondo album Racines ed era forte la curiosità per capire dove sarebbe finita quella incredibile semina di idee sempre diverse. Il risultato è Scenario un nuovo album che è alla base degli ultimi concerti della band. Abbiamo ritrovato nel concerto di Cagliari (con Pasquale Mirra, Tiziano Bianchi, Marco Frattini) la solita miscela di suoni e atmosfere, il divagare indolente tra i generi e una voce straniante e quasi sofferente che in certi momenti rimanda al Thom Yorke più lacerato. Si è lavorato tanto sulle sfumature dei suoni, sui particolari timbrici, ogni nota ha un suo valore e ogni suono diventa funzionale al collettivo. Arrivano umori mediterranei e soffia un narcotico vento da sud, forse lo stesso che hanno respirato i nuovi tuareg e anche profumi di origine incerta. Il tutto con una personalità ormai definita e riconoscibile che fa dei C’mon Tigre una delle più interessanti esperienze musicali contemporanee.
Il festival inizia ufficialmente venerdì 30 settembre alle ore 19:00 con l’omaggio a Michel Petrucciani proposto dal quartetto capitanato da Chano Domínguez e Flavio Boltro: operazione insidiosa vista la peculiarità del personaggio ma risolta con maestria e mestiere. Si prosegue con la Paolo Carrus Big Band che è ormai un’istituzione nella scena jazz locale che per tre serate si esibirà nella terrazza del Massimo con tre repertori differenti che spaziano dal latin jazz agli standard recuperati dall’american songbook passando per le composizioni originali dello stesso Carrus sempre intrise di umori mediterranei e fascinazioni isolane. In contemporanea si è esibito Gianrico Manca con il suo progetto Transition formato da giovani talenti locali per una proposta che conferma le passioni del batterista cagliaritano: new jazz metropolitano di chiara impostazione black e una sorta di messa su strada di nuove composizioni che dovrebbero confluire a breve in un nuovo progetto discografico. Manca ha citato per l’occasione, come fonte di ispirazione, Eugenio Montale e la controversa figura di Rita Vogt che – se siete curiosi – potete approfondire in un film a lei dedicato da Volker Schlöndorff nel 2000. Si cambia completamente mood e scenario con l’esibizione di piano solo di Danilo Rea accompagnato dalle fotografie di Pino Ninfa in un progetto comune che ha come sfondo il Mediterraneo. Le foto di Ninfa raccontano di un Sud espressionista, silente, quasi neorealista, un mondo popolato da fantasmi e sembianze mistiche che si chiude con la drammatica sequenza delle barche abbandonate dai tanti migranti che solcano le acque del nostro mare. Sullo sfondo Rea fornisce un substrato emotivo ricavato dalla grande tradizione musicale italiana con un approccio melodrammatico che lui sa fare molto bene. Questa prima serata si conclude con l’acclamata esibizione del trio di Richard Bona e Alfredo Rodríguez che esaltano la platea con virtuosismi di alta scuola e un innato senso dello spettacolo. Un concerto di altissimo livello che mette sullo stesso piano la cultura cubana, l’Africa delle grandi pianure e tutte quelle mutazioni che il jazz ha affrontato nella sua lunga storia.
Partenza alla grande nella giornata di sabato con l’esibizione dei Cosmic Renaissance di Gianluca Petrella che rimette mano a un progetto di qualche anno fa (2009 circa) allora chiamato Cosmic Band. In realtà tante cose sono cambiate da allora: l’equipaggio è stato in parte rinnovato per l’occasione e la band ha trovato nuove forme espressive più vicine ai nostri tempi: più elettronica, lo space jazz di Sun Ra, ritmi di molteplice derivazione, a lot of black funky e la voce di Soweto Kinch che rende questo viaggio ancora più metafisico e allucinato. A seguire Matteo Leone che ci riporta sulla terra, alla sua Tabarka che è un crocevia di umori e di culture: nella sua proposta convive il narcotico blues del deserto e una lingua ignota a noi ma che ben conosceva il caro De André. Si viaggia così tra storie e vicende di uomini e viaggi spesso incerti e le tante anime di una cultura che è nostra ma anche altra nel suo essere nel tempo e fuori dal tempo. Chiude la serata l’esibizione della Jazz Brigade del polacco Sylwester Ostrowski che può contare sull’apporto di un mito del jazz come Essiet Essiet e sulla voce imponente di Dorrey Lynn Lyes. Tra soul, gospel, spiritual e post-bop la Jazz Brigade fornisce un set di solido jazz ben suonato e confortevole nella sua classicità.
La domenica si presenta piuttosto impegnativa. Si comincia la mattina nel fuaiè con la presentazione del libro di Marco Molendini dedicato a Pepito Pignatelli, un personaggio che ha scritto la storia del jazz romano e che in qualche modo ci riguarda da vicino: nel suo locale romano nei primi anni Sessanta dello scorso secolo si esibì un giovanissimo Marcello Melis e da quelle parti approdarono anche personaggi a noi cari come Antonello Salis a inizio carriera, Isio Saba e tanti altri. Un mondo che ormai non esiste più ma che è giusto ricordare per capire quello che siamo diventati. Seguirà prima di pranzo il concerto di Jeremy Pelt, uno degli astri nascenti del nuovo jazz americano: il suo jazz è la storia del jazz che si rinnova ogni giorno, è un sincero omaggio ai maestri del genere ma anche uno sguardo aperto verso la contemporaneità.
Giusto il tempo di un break e si riprende con il tributo a Charlie Mingus proposto dal quintetto assemblato da Furio Di Castri che non ha mai nascosto il suo debito nei confronti di questo mostro sacro della musica del Novecento di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Il repertorio mingusiano è uno scrigno che si presta a numerose riletture, a nuove interpretazioni e ulteriori approfondimenti e Di Castri è perfetto nel riuscire a cavalcare questo impetuoso torrente di emozioni. Stati d’animo che continuano con il set di Antonio Floris, chitarrista originario di Mogoro (che avevamo già apprezzato nel combo di Gianrico Manca) dalle grandi potenzialità e con un futuro tutto da scrivere. Nuovo cambio di scena per un set molto atteso vista l’età del suo protagonista: lo spagnolo Antón Cortés classe 2007 ma attivo da diversi anni e ormai un veterano del flamenco con una proposta innovativa che in qualche modo sta riscrivendo le coordinate di un genere che sembrava ormai codificato. Si chiude in bellezza con il quintetto di Jean Toussaint e le sue canzoni per fratelli, sorelle e altre possibili combinazioni. Jazz classico, figlio di infinite concatenazioni e incontri sempre nuovi in uno scenario globale dove ogni suono è il risultato di tanti innesti: questo è il jazz e questa è la sua vera natura.
Ma il festival non è stato solo un lungo elenco di esibizioni dal vivo. In questi giorni si è trovato anche il tempo per riproporre un laboratorio sensoriale dedicato ai bambini (Il jazz con gli occhi di un bambino jam) con la partecipazione di Francesca Romana Motzo e Matteo Leone; le sonorizzazioni in tempo reale proposte da Gianmarco Diana (Cinematica); i dj-set di Zimbra e Marco Cabras; un laboratorio di fotografia organizzato da Francesca Mancini in collaborazione con Pino Ninfa. E, soprattutto, un momento di incontro tra appassionati, musicisti, addetti del settore e di tutti quelli che sono cresciuti con quello strano virus che si chiama musica.